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Ostaggi Hamas Israele: chi sono, quali storie oggi?

Sono tornati in Israele i 20 ostaggi israeliani ancora in vita dopo 738 giorni di prigionia a Gaza, liberati nell’ambito di un accordo che prevede uno scambio con quasi duemila detenuti palestinesi e il rientro progressivo delle salme di 28 ostaggi uccisi. Si tratta in gran parte di giovani rapiti il 7 ottobre 2023 nei kibbutz di confine o mentre fuggivano dal Nova Music Festival a Re’im: ragazzi, padri, due soldati di leva. Hanno in comune la sottrazione improvvisa alla normalità e il ritorno in una realtà da ricostruire, tra cure mediche, traumi e famiglie che li hanno aspettati ogni giorno.
Chi sono? Da dove vengono? Perché le loro storie contano oggi? I nomi sono ormai familiari a chi ha seguito la vicenda degli ostaggi Hamas Israele: Avinatan Or, Alon Ohel, Evyatar David, Rom Braslavski, Gali e Ziv Berman, Ariel e David Cunio, Omri Miran, Matan Angrest, Nimrod Cohen, Elkana Bohbot, Yosef-Haim Ohana, Eitan Mor, Segev Kalfon, Maxim Herkin, Eitan Horn, Matan Zangauker, Bar Abraham Kupershtein. Sono tornati passando per i corridoi della Croce Rossa, la base di Re’im e gli ospedali israeliani dove sono iniziate le prime valutazioni cliniche. Nell’intesa rientra il rilascio di 250 detenuti condannati all’ergastolo e di oltre 1.700 arrestati a Gaza dopo il 7 ottobre. Resta aperto il capitolo delle salme: oggi ne sono state restituite quattro (tra cui Guy Illouz, Yossi Sharabi e Daniel Perez), mentre le famiglie chiedono il pieno rispetto dell’accordo e la restituzione di tutte le vittime.
Il quadro del rilascio e dello scambio
Il rilascio dei 20 ostaggi israeliani vivi è avvenuto in due passaggi, con la Croce Rossa a fungere da cerniera tra Gaza e Israele e con la successiva presa in carico da parte delle autorità sanitarie e militari israeliane. Le navette hanno imboccato i valichi stabiliti, quindi i convogli hanno puntato verso Re’im, dove sono avvenuti i primi triage medici e psicologici. Da lì, elicotteri e mezzi di emergenza hanno ripartito i pazienti verso strutture ospedaliere già pronte: protocolli dedicati, equipe miste di medici, psichiatri, nutrizionisti, fisioterapisti e assistenti sociali. L’operazione è stata calibrata al minuto, con checklist che includono la reidratazione controllata, la reintroduzione alimentare graduale, il monitoraggio di infezioni, lesioni cutanee, patologie odontoiatriche e disturbi del sonno accumulati in 24 mesi di privazioni.
Sull’altro fronte, Israele ha scarcerato quasi 2.000 persone: 250 prigionieri con condanne all’ergastolo e più di 1.700 detenuti prelevati a Gaza durante la guerra, in larga parte senza capi di imputazione definitivi. Il numero e la tipologia dei rilasciati hanno acceso discussioni interne, ma sono il fulcro dell’intesa che ha riportato a casa gli ostaggi vivi. Nell’accordo è previsto il ritorno dei resti di 28 ostaggi uccisi, di cui quattro sono stati effettivamente consegnati nelle stesse ore della liberazione: una consegna parziale che ha spinto le famiglie a chiedere pressioni ulteriori per il rientro di tutte le salme e la piena ricomposizione dell’elenco dei dispersi.
Il conto, oggi, è questo: 251 persone rapite il 7 ottobre 2023; 20 tornate vive nelle ultime ore; 26 dichiarate morte; i resti di 28 in via di recupero e identificazione forense. I rilasci odierni hanno chiuso, per la prima volta, la pagina sugli ostaggi vivi. Restano dolorosamente aperte quella delle famiglie che attendono i corpi e quella delle indagini su quanto accaduto in cattività, comprese le prove mediche che aiuteranno a ricostruire condizioni di detenzione, spostamenti, eventuali trattamenti sanitari e responsabilità.
Chi sono i 20 liberati: volti, età, luoghi
Dietro la sigla “ostaggi Hamas Israele” ci sono vite riconoscibili. Molti vengono dal Nova Music Festival di Re’im: Alon Ohel, Evyatar David, Rom Braslavski, Guy Gilboa-Dalal, Eitan Mor, Segev Kalfon, Maxim Herkin, Eitan Horn. Ohel, 24 anni, è un pianista che aveva trasformato il salotto di casa in un’attesa: il pianoforte coperto e pronto “a ripartire” il giorno del rientro. David era apparso in un video di propaganda, dimagrito, costretto a lavori forzati: oggi i medici parlano di denutrizione severa. Braslavski, rapito a 19 anni, riabbraccia una famiglia che per mesi non ha avuto altro che silenzio e immagini di seconda mano. Gilboa-Dalal, Mor, Kalfon, Herkin e Horn sono parte della stessa costellazione: giovani che hanno cercato ripari di fortuna e sono stati trascinati oltre il confine.
Nei kibbutz di confine la lista dei nomi racconta famiglie intere spezzate e ora, in parte, ricomposte. Gali e Ziv Berman, gemelli, 28 anni, presi a Kfar Aza e tenuti per lungo tempo separati, sono tornati insieme. Ariel e David Cunio, fratelli argentino-israeliani di Nir Oz, ritrovano una famiglia segnata da un rapimento “multiplo”: la moglie di David e le loro gemelline erano rientrate già nella tregua di fine novembre 2023. Omri Miran, 48 anni, agricoltore di Nahal Oz, ha ascoltato la voce della figlia che due anni fa era una neonata: un dettaglio che restituisce il tempo rubato alle relazioni più elementari.
Tra i rapiti del 7 ottobre ci sono anche due soldati di leva. Matan Angrest, 22 anni, è stato prelevato vicino a Nahal Oz dopo un assalto al suo carro; Nimrod Cohen, 20 anni, è riemerso con infezioni cutanee e una otite non curata. La loro presenza nel gruppo dei 20 liberati ricorda che quella mattina furono colpiti civili e militari, in case, strade, basi e vie di fuga. Elkana Bohbot, Yosef-Haim Ohana, Matan Zangauker e Bar Abraham Kupershtein completano la mappa dei rientri, con storie che intrecciano kibbutz e città, lavori comuni e percorsi di studio interrotti.
In testa a questo elenco di vite c’è un volto noto a tutto il mondo: Avinatan Or, 32 anni, ripreso mentre la compagna Noa Argamani veniva trascinata su una motocicletta. Argamani era stata liberata a giugno 2024 in un’operazione a Nuseirat. L’abbraccio tra i due, oggi, è il simbolo del ritorno possibile, anche quando il tempo sembra lavorare contro.
Dove iniziò tutto: Nova e i kibbutz di confine
Per capire chi siano gli ostaggi israeliani a Gaza, bisogna tornare al 7 ottobre 2023 e alla geografia minuta del sud di Israele. I nomi sono brevi ma l’eco è lunga: Re’im, Kfar Aza, Nir Oz, Nahal Oz. Il Nova Music Festival era una festa all’alba, con tende, luci, auto parcheggiate in fila nel deserto. Molti dei rapiti si erano nascosti in rifugi improvvisati o sotto le piattaforme del palco; altri sono stati presi mentre cercavano di fuggire sulle strade sterrate. Nei kibbutz a ridosso della barriera di Gaza le famiglie hanno vissuto assalti casa per casa, con stanze sicure incendiate, finestre divelte, chiamate in diretta ai parenti per testimoniare il sequestro.
Il profilo delle vittime dice molto della natura indiscriminata dell’attacco: giovani tra i 18 e i 30 anni, studenti, tecnici della luce, baristi, camerieri, ma anche padri di famiglia, artigiani, agricoltori, soldati di leva sorpresi nel cambio turno o in operazioni di difesa. Nel mosaico dei rapiti ci sono doppie cittadinanze e lavoratori stranieri: la liberazione finale dei 20 non cancella il dolore per chi non torna e non chiude il capitolo internazionale, come nel caso del nepalese Bipin Joshi, oggi confermato tra i deceduti e incluso nel gruppo delle salme la cui restituzione è iniziata in queste ore.
Nel frattempo, Hostages’ Square a Tel Aviv è diventata una piazza-altare: foto, sedie vuote, candele, turni di veglia, comunicati, maxischermi che hanno proiettato in diretta la lista dei rientri e gli aggiornamenti. Qui genitori e fratelli hanno imparato a parlare in pubblico, a raccontare le abitudini dei rapiti per tenerli presenti, a ricordare compleanni spenti sottoterra. La società civile ha fatto da cassa di risonanza, chiedendo priorità assoluta per il dossier ostaggi in ogni fase della guerra e del negoziato.
Il rientro in Israele: percorso clinico e familiare
Il ritorno non è una scena unica ma un percorso. All’arrivo i 20 liberati sono stati inquadrati in linee di cura calibrate sul digiuno protratto, sulla deprivazione di luce, sull’immobilità forzata e sui traumi cumulativi. I medici parlano di re-feeding con monitoraggio elettrolitico, integrazione di vitamine e minerali, cicli di fisioterapia per rimettere in moto muscoli assottigliati dalla fame, supporto psicologico con approccio trauma-informed che include sedute individuali e familiari, e screening per infezioni latenti, problemi dentari e otologici.
Il contesto familiare richiede un’attenzione parallela. Gli specialisti suggeriscono ambienti protetti, routine semplici, contatti graduati con stampa e amici. Le famiglie hanno preparato camerate, cucine piene di cibi preferiti, album fotografici per ricucire il filo dei giorni. In molte case, come in quella di Ohel, si è scelto di far parlare gli oggetti prima delle parole: un pianoforte accordato, un gioco lasciato a metà, un quaderno di appunti. Per i soldati, la riabilitazione tiene conto dell’impatto di una cattività di guerra su corpi giovanissimi: cure per la pelle, otiti cronicizzate, infezioni trattate in ritardo, insonnia e ipervigilanza.
Sul piano pratico, il passaggio dalla Croce Rossa agli ospedali è stato accompagnato da colloqui investigativi con squadre miste di forze di sicurezza e psicologi forensi. Non si tratta di interrogatori, ma di raccolte strutturate di informazioni utili a ricostruire spostamenti, luoghi di detenzione, figure di guardia e trattamenti ricevuti. Questi dati confluiranno in fascicoli destinati sia alla memoria sia all’eventuale azione penale futura.
Storie che pesano: profili essenziali
La lista dei 20 è diventata in due anni un mosaico di racconti che gli israeliani conoscono quasi a memoria. Qui si intrecciano volti, luoghi e gesti che hanno segnato la narrazione pubblica.
Avinatan Or e il filo spezzato con Noa Argamani
Avinatan Or, 32 anni, è l’icona di un abbraccio interrotto. L’immagine della sua compagna Noa Argamani trascinata via in moto è diventata virale in tutto il mondo. Or venne catturato mentre cercava di raggiungerla; Argamani sarebbe poi tornata viva nell’operazione di Nuseirat del giugno 2024. Oggi i due si sono riabbracciati, chiudendo una parentesi che per mesi ha tenuto sospese due famiglie e fatto da leva internazionale sulla priorità degli ostaggi. La loro storia è trasversale: tocca il festival, i tunnel, gli ospedali, i salotti dove si attende con la tv accesa e il cellulare in mano.
Alon Ohel, un pianoforte rimasto in silenzio
Alon Ohel, 24 anni, pianista, era fuggito dal Nova rifugiandosi in un riparo improvvisato. È stato portato via da lì, ferito. Il suo pianoforte è rimasto coperto per due anni, un altare laico in attesa del suo tocco. I medici descrivono una condizione tipica di malnutrizione prolungata, con perdita di massa muscolare e affaticamento cronico. La sua famiglia ha scelto un ritorno silenzioso: poche parole, musica come terapia, tempi lunghi per rimettere insieme memoria corporea e memoria emotiva. La sua vicenda ha fatto il giro dei media perché rende tangibile cosa significhi riprendere il filo dopo due anni di buio.
Sullo sfondo di queste due storie più note si muovono nuclei familiari ricomposti e giovani che portano addosso i segni del sotterraneo.
I gemelli Gali e Ziv Berman, 28 anni, tecnici della luce, erano stati prelevati a Kfar Aza. Il ritorno insieme ha un valore psicologico forte: riconoscersi dopo mesi di separazione in ambienti angusti. I fratelli Ariel e David Cunio, Nir Oz, scrivono un romanzo familiare in tre tempi: rapimento, rilascio parziale a fine novembre 2023 (moglie e gemelle di David), rientro odierno dei due fratelli. Omri Miran, 48 anni, di Nahal Oz, è l’altro volto diventato nazionale: padre di due figlie, una delle quali non ricordava la sua voce. La prima parola pronunciata guardandolo in reparto è stata già titolo e sintesi: “papà”.
Nel gruppo spiccano due soldati. Matan Angrest, 22 anni, è stato strappato da un carro assaltato vicino a Nahal Oz; Nimrod Cohen, 20 anni, è tornato con lesioni cutanee e un quadro di stress prolungato. La loro giovane età ha colpito l’opinione pubblica: immagini di ragazzi che, in qualsiasi altro paese, sarebbero all’università o al primo lavoro. Le famiglie raccontano storie di resistenza minuta: ore contate senza orologio, pane come unico pasto, spostamenti continui per sfuggire ai raid, silenzio forzato come metodo di controllo.
Accanto a loro tornano Elkana Bohbot, Yosef-Haim Ohana, Eitan Mor, Segev Kalfon, Maxim Herkin, Eitan Horn, Matan Zangauker, Bar Abraham Kupershtein. Nelle corsie degli ospedali i medici ripetono che non esistono percorsi standard: c’è chi ha bisogno di peso prima di parlare, chi parla per non pensare, chi chiede di lavarsi e tagliarsi i capelli in fretta, come se eliminare i segni fisici della prigionia aiutasse a respirare.
Le vittime da riportare a casa: le salme, i nomi, i passaggi
Nell’accordo che ha liberato i 20 ostaggi vivi è scritto anche il rientro delle salme di 28 ostaggi uccisi in cattività o durante i combattimenti. Oggi sono stati restituiti quattro corpi: tra questi Guy Illouz, Yossi Sharabi e l’ufficiale Daniel Perez; le famiglie chiedono che l’impegno venga rispettato integralmente e che le autorità sanitarie possano procedere con le identificazioni forensi secondo i protocolli dell’Istituto di medicina legale di Abu Kabir e delle strutture militari dedicate.
Per i parenti si apre una fase diversa, fatta di certezze dolorose al posto del limbo dell’attesa. Ogni riconsegna è un atto amministrativo e un rituale religioso; ma è anche una pagina di indagine che potrebbe chiarire dinamiche, tempi e luoghi della morte. Sul piano politico, la consegna parziale dei corpi nella giornata odierna è già diventata motivo di tensione: le associazioni delle famiglie sollecitano i garanti dell’intesa a vigilare sul rispetto degli impegni e su un calendario chiaro di rientro di tutte le salme.
Sullo sfondo, la contabilità di due anni di guerra: oltre 1.200 israeliani uccisi il 7 ottobre 2023 e nelle ore successive; in Gaza decine di migliaia di morti e un tessuto civile devastato. Il cessate il fuoco legato allo scambio di oggi apre una finestra di respiro umanitario: corridoi per gli aiuti, strutture di distribuzione, ospedali che provano a riprendere attività ordinarie. Ma il focus di questa pagina resta il volto umano dei rientri.
Cosa resta da fare: cura, memoria, responsabilità
Con i 20 tornati a casa, l’attenzione si sposta su cura e accompagnamento. Le strutture sanitarie hanno già adottato protocolli modulari per ex ostaggi: valutazioni psicodiagnostiche, psicoterapia orientata al trauma, fisioterapia e nutrizione progressiva, oltre a tutela legale e sostegno al reddito per i mesi necessari a rimettere in piedi studio e lavoro. Molti avranno bisogno di tempi lunghi: dormire senza allarme, mangiare senza contare le briciole, camminare senza cercare una via di fuga. Le famiglie, istruite dai clinici, stanno costruendo routine che minimizzino rumori e sollecitazioni inutili.
Sul piano istituzionale, l’agenda è fitta. L’identificazione delle salme richiede rigore forense; gli interrogatori investigativi degli ex ostaggi, protetti da tutele psicologiche, dovranno essere riassunti e confrontati con i dati d’intelligence per mappare luoghi di detenzione e catene di comando. Il dossier scambi resterà al centro di discussioni interne: equilibrio tra giustizia per le vittime, sicurezza nazionale e obbligo morale di riportare a casa i propri cittadini.
Nelle case, intanto, si rimettono a posto oggetti e giorni. Le famiglie hanno imparato una grammatica semplice, fatta di verbi essenziali: aspettare, abbracciare, curare, ascoltare. A Tel Aviv, la piazza degli ostaggi inizierà lentamente a svuotarsi; ma molte sedie resteranno esposte fino al rientro di tutte le salme. Gli ospedali hanno chiesto rispetto dei tempi clinici e privacy per i pazienti; le redazioni hanno rimodulato linee guida interne per evitare immagini invasive nelle prime 72 ore.
Per i lettori italiani, la dimensione umana e verificata di queste storie offre una chiave concreta per orientarsi in un conflitto raccontato spesso per numeri e strategie. Oggi i nomi tornano al centro: Alon che prova di nuovo la tastiera, Avinatan che rivede Noa, Gali e Ziv che si ritrovano allo specchio, Ariel e David che riannodano i legami di famiglia, Omri che ascolta una figlia che ha imparato a chiamarlo mentre lui non c’era, Matan e Nimrod che imparano a mettere i piedi a terra senza cercare un riparo.
Le storie rientrate e quelle ancora sospese
Il ritorno dei 20 ostaggi vivi chiude una pagina, non il libro. Le storie rientrate – con i loro nomi completi, i luoghi e le date – dicono che la priorità umanitaria è stata finalmente rispettata: riportare persone a casa, vigilare sulle loro cure, proteggere il loro tempo. Quelle ancora sospese – le salme da identificare e restituire, gli interrogativi su trattamenti e responsabilità, i percorsi giudiziari che potranno aprirsi – chiedono continuità, controllo e trasparenza. Per chi legge, ostaggi Hamas Israele non è più solo una keyword, ma un indice di biografie concrete: vite riportate alla luce, famiglie che riprendono il filo, medici e operatori che costruiscono, giorno dopo giorno, il ritorno alla normalità. In questa normalità ci sono nomi da ricordare e storie da seguire con la stessa, ostinata, attenzione con cui sono stati aspettati.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Repubblica, Corriere della Sera, ANSA, RaiNews, Sky TG24, Il Fatto Quotidiano.

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