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Quanti poveri assoluti in Italia oggi e chi rischia di più?

Nei numeri più aggiornati disponibili, in Italia vivono in povertà assoluta 5,7 milioni di persone, pari a 2,2 milioni di famiglie e a un’incidenza complessiva dell’8,4%. È una fotografia scattata sui dati 2024: significa che una parte consistente della popolazione non riesce a sostenere le spese essenziali per beni e servizi — dal cibo all’abitazione, dai trasporti alla salute fino all’istruzione — secondo le soglie definite dall’Istat. Dentro questa platea si distinguono due aspetti cruciali: l’alta esposizione degli stranieri (oltre 1,8 milioni di individui, 35,6% di incidenza, quasi cinque volte gli italiani) e la crescita dell’allarme tra i minori, 1,28 milioni di bambini e ragazzi coinvolti (13,8%), il livello più alto dal 2014.
Il quadro territoriale e sociale è nitido: la povertà colpisce di più le famiglie numerose, quelle in cui il capofamiglia fa l’operaio, ha titoli di studio bassi e vive nel Mezzogiorno. In una casa con 5 o più componenti l’incidenza balza al 21,2%; se la persona di riferimento è un lavoratore dipendente, l’incidenza è 8,7% ma sale al 15,6% tra gli operai; con diploma o più scende al 4,2%, con licenza media è 12,8%, con elementare 14,4%. Geograficamente, l’incidenza è 10,5% nel Mezzogiorno, 8,1% nel Nord-Ovest, 7,6% nel Nord-Est, 6,5% nel Centro; in termini assoluti, però, il 44,5% delle famiglie povere vive al Nord, il 39,8% nel Mezzogiorno, il 15,7% al Centro. A distanza di cinque anni, la vulnerabilità è più ampia: gli individui poveri sono aumentati di 1,1 milioni rispetto al periodo pre-Covid. Un altro dato chiave: il 67% delle famiglie povere è composto da soli italiani (oltre 1,49 milioni), mentre il restante 33% include famiglie con stranieri (circa 733 mila, nell’82% dei casi formate solo da stranieri). Tra le famiglie con almeno un minore l’incidenza è 12,3% e l’intensità della povertà — la distanza dalla soglia — sale al 21% contro una media nazionale del 18,4%.
Quadro in sintesi: i numeri principali del 2024
Per povertà assoluta si intende l’impossibilità di sostenere un paniere di spesa minimo vitale definito dall’Istat, che varia per ampiezza familiare, composizione, zona di residenza e dimensione del comune. Non è un concetto astratto: è la traduzione statistica del “non arrivare a fine mese” anche tagliando al massimo i consumi discrezionali. Misurata su base annua, fotografa chi non può permettersi l’indispensabile, non semplicemente chi spende poco o risparmia: qui si parla di sufficienza materiale.
I dati 2024 indicano stabilità sull’anno precedente ma anche fragilità rispetto al pre-pandemia. L’aumento di 1,1 milioni di poveri in cinque anni, segnalato dalle associazioni dei consumatori, implica un progressivo scollamento tra redditi bassi e costo della vita. L’inflazione degli ultimi due anni ha rallentato, ma gli strappi sui prezzi di alimentari e utenze hanno lasciato segni duraturi: chi partiva già vicino alla soglia ha perso margine di sicurezza. Di qui la fotografia di un Paese dove la povertà non riguarda solo disoccupazione o marginalità estrema, ma anche lavoro regolare con buste paga insufficienti e famiglie in cui le spese incomprimibili assorbono quasi tutto.
L’incidenza tra gli stranieri resta molto elevata. Ciò non significa che la povertà sia “un tema da stranieri”: i numeri assoluti dicono che due famiglie povere su tre sono italiane. Ma tra i cittadini non italiani si sommano variabili sfavorevoli: contratti più instabili, barriere linguistiche e carenze di rete sociale, alloggi più costosi in rapporto al reddito, maggior concentrazione in lavori manuali a bassa retribuzione. La combinazione di rischio lavorativo e vincoli famigliari fa salire l’incidenza.
Chi è più esposto: cittadinanza, lavoro, istruzione
Il dettaglio per cittadinanza illumina bene la struttura del fenomeno. Tra gli italiani l’incidenza è 7,4%, tra gli stranieri 35,6%. All’interno dei nuclei familiari, si osservano tre profili: famiglie di soli italiani, famiglie miste e famiglie di soli stranieri. Qui la pendenza del rischio si fa evidente: 6,2% per i soli italiani, 30,4% per le famiglie con almeno uno straniero, 35,2% per i soli stranieri. Differenze così ampie sono rare in altre statistiche sociali e rimandano a fattori multipli, non a un unico elemento. La qualità del lavoro è centrale: un impiego può esserci, ma essere lavoro povero, cioè remunerato e organizzato in modo da non garantire standard minimi di vita alla famiglia. Basti un riferimento: il 15% delle famiglie operaie sperimenta lavoro povero. In pratica, si accumulano ore, turni e straordinari, ma l’uscita dalla precarietà non scatta.
A ciò si aggiunge il capitale umano. L’istruzione agisce da ammortizzatore: tra i nuclei in cui il capofamiglia ha almeno un diploma, l’incidenza di povertà assoluta scende a 4,2%; con licenza media sale a 12,8%, con elementare tocca 14,4%. Non è solo titolo per il curriculum, ma un insieme di competenze che facilitano mobilità occupazionale, accesso all’informazione e gestione di spese complesse (mutui, tariffe, bonus). Sul mercato del lavoro italiano, con produttività stagnante e segmentazione tra stabilità e periferia dei servizi, l’istruzione resta la barriera più efficace contro la caduta sotto soglia.
Ci sono poi i costi fissi della vita. Alloggio, energia, trasporti sono voci che non si possono azzerare e che negli ultimi anni hanno inciso di più sui bilanci dei redditi bassi. Se l’affitto assorbe una quota eccessiva del reddito, basta poco — un taglio di ore, una bolletta sopra media, un guasto — per scivolare nella soglia Istat. Nelle aree metropolitane, dove i canoni sono più alti, la componente abitativa pesa proporzionalmente di più sull’incidenza della povertà urbana. Al Sud, dove i canoni medi sono più bassi, pesano invece disoccupazione e lavoro intermittente, con effetti più netti sul reddito disponibile.
Bambini e famiglie numerose: dove si scava il solco
Il segmento più delicato resta quello dei minori. Nel 2024 1,28 milioni di bambini e ragazzi vivono in povertà assoluta, 13,8% a livello nazionale, con un picco del 14,9% tra i 7 e i 13 anni. Le famiglie con almeno un minore in condizione di povertà sono circa 734 mila (12,3%) e l’intensità della povertà in questa fascia tocca il 21%, contro una media del 18,4%. In termini concreti, significa che questi nuclei sono più lontani dalla soglia minima di spesa necessaria e dunque hanno meno margini per recuperare anche in presenza di piccoli miglioramenti di reddito.
La dimensione familiare è un moltiplicatore di rischio: nelle famiglie con 5 o più componenti l’incidenza arriva a 21,2%, mentre scende all’8,6% in quelle con tre membri. La ragione è intuitiva: l’aumento dei componenti impone un paniere più ampio di spese non comprimibili — alimentazione, trasporti scolastici, libri, vestiario — che un solo stipendio o due salari bassi non riescono ad assorbire. Per questo gli strumenti dedicati ai figli e la qualità dei servizi pubblici locali (nidi a costo calmierato, mensa, tempo pieno, trasporto, borse studio) diventano decisivi: compensano parte della spesa e riducono l’intensità della povertà, anche quando l’incidenza numerica non cala immediatamente.
Nelle storie quotidiane, questa condizione si traduce in scelte difficili: visite mediche rinviate, attività extrascolastiche eliminate, vacanze assenti, abbonamenti ai mezzi saltati. Non sono sacrifici simbolici: sono rinunce che nel medio periodo penalizzano lo sviluppo educativo e la mobilità sociale dei figli. L’effetto è cumulativo: meno opportunità oggi producono minori competenze domani e una probabilità più alta di restare su traiettorie occupazionali fragili.
La mappa del Paese: Nord, Centro, Mezzogiorno
Osservando il territorio, il Mezzogiorno presenta l’incidenza più alta di povertà assoluta tra le famiglie (10,5%). Seguono Nord-Ovest (8,1%), Nord-Est (7,6%) e Centro (6,5%). Ma se guardiamo i valori assoluti — quante sono le famiglie povere — l’immagine cambia: il 44,5% si concentra al Nord, il 39,8% al Sud e il 15,7% al Centro. È un paradosso solo apparente: le aree settentrionali sono più popolose e hanno mercati del lavoro più estesi; quindi, pur con incidenze più basse, contano più famiglie che cadono sotto la soglia in numeri assoluti.
In molte città del Nord, a pesare è il costo dell’abitare e una polarizzazione crescente tra lavori ad alta qualificazione e servizi a basso salario (logistica, ristorazione, assistenza). Al Sud, i nodi restano disoccupazione strutturale, bassa partecipazione femminile e settori informali che limitano contributi e tutele. Il Centro mostra valori più equilibrati, ma soffre differenze marcate tra aree metropolitane e province interne. In tutti i casi, il pendolarismo dei redditi famigliari è sempre più evidente: spese “inelastiche” — affitti, bollette, carburanti — spingono in basso i margini residui per cibo di qualità, cultura e istruzione.
Questa geografia spiega perché un’unica misura nazionale difficilmente basta. Servono politiche multi-livello: alloggi a prezzi accessibili in aree metropolitane, trasporto pubblico efficiente per ridurre costi di mobilità, nidi e tempo pieno per alzare l’occupazione femminile, formazione professionale tarata sui fabbisogni locali. In assenza di leve territoriali, il rischio è che i trasferimenti monetari si trasformino rapidamente in rendite per i costi fissi (affitti, utenze), senza migliorare capacità e opportunità delle famiglie.
Dal pre-Covid a oggi: tendenze e carrello della spesa
Il confronto con il pre-Covid è la cartina di tornasole: in cinque anni il numero di individui in povertà assoluta è cresciuto di 1,1 milioni. L’inflazione del biennio 2022-2023 ha sparigliato i conti: anche con salari nominali in lieve aumento e qualche taglio del cuneo fiscale, l’inflazione di fondo ha eroso il potere d’acquisto, soprattutto su alimentari ed energia. Quando la spesa per il cibo cresce più del reddito, le famiglie a basso reddito tagliano qualità e quantità; quando crescono le bollette, saltano quote di consumo discrezionale importanti per il benessere (sport, cultura, tempo libero). Si crea così una povertà degli stili di vita che non rientra subito nelle misure ufficiali ma anticipa scivolamenti successivi.
Il carrello della spesa offre una misura concreta del fenomeno: prodotti di base, come pasta, pane, latte, frutta e verdura, hanno registrato in molte fasi rincari superiori alla media generale. Una famiglia con due figli si è trovata a riprogrammare menù e ridurre gli sprechi come non faceva da anni. Nei condomìni, aumenti delle spese comuni e manutenzioni rimandate hanno generato morosità; chi è in affitto ha sperimentato adeguamenti ISTAT che hanno inciso oltre il previsto. La resilienza dei consumi italiani ha retto nella media, ma la coda bassa della distribuzione ha pagato il prezzo più alto.
Non è un destino. Ogni ciclo inflattivo lascia vincitori e perdenti; se non si accompagnano politiche mirate a chi ha meno margini, la cristallizzazione della povertà è un esito probabile. Lo dimostrano l’intensità più alta nelle famiglie con minori e la divergenza per istruzione: quando il reddito non basta, l’accesso a informazione di qualità, reti di supporto e servizi pubblici fa la differenza tra un saldo negativo e la possibilità di stabilizzarsi.
Cosa serve adesso: lavoro, servizi, politiche mirate
La risposta più efficace resta alzare i redditi da lavoro nella parte bassa della distribuzione e ridurre i costi fissi che schiacciano i bilanci. Due binari che devono correre insieme: da un lato, qualità contrattuale, formazione, continuità occupazionale; dall’altro, alloggi accessibili, energia sostenibile, trasporti efficienti, scuola inclusiva. All’interno di questo schema, tre leve sono particolarmente rilevanti.
La prima è il lavoro povero. Dove il 15% delle famiglie operaie sperimenta salari che non coprono il paniere minimo, servono progressioni salariali ancorate alle competenze, contrattazione di qualità lungo le filiere e un rafforzamento dei controlli contro forme di part-time involontario o paghe grigie. Ridurre l’area del lavoro povero significa spezzare la continuità tra impiego formale e povertà materiale. L’esperienza internazionale indica che interventi su produttività, organizzazione del lavoro e politiche attive rendono più dei soli trasferimenti.
La seconda è il capitale umano. L’evidenza per titolo di studio è lampante: chi ha diploma o laurea regge meglio agli shock. Servono percorsi di istruzione tecnica e professionale connessi ai fabbisogni industriali e dei servizi avanzati, orientamento serio, alternanza di qualità e riqualificazione continua per adulti. La scuola è il luogo in cui si previene la povertà futura: tempo pieno, mense, supporti didattici e tutoraggio per i ragazzi a rischio riducono l’abbandono e consolidano competenze di base.
La terza è la protezione dei minori e delle famiglie numerose. L’elevata incidenza e l’intensità tra i nuclei con bambini indicano la necessità di servizi per l’infanzia e trasferimenti mirati calibrati sulla dimensione familiare e sul costo locale della vita. Dove il welfare territoriale funziona, l’impatto della povertà si attenua: nidi pubblici o convenzionati, trasporto scolastico efficiente, attività sportive a costo calmierato, biblioteche e centri civici aperti trasformano spese private in beni collettivi. Ogni euro ben speso qui evita costi sociali futuri.
Infine, l’abitare. Gli affitti drenano quote crescenti di reddito nelle città e nelle aree turistiche. Politiche di housing sociale, incentivi al canone concordato, recupero dell’edilizia pubblica dismessa e piani per student housing possono allentare la pressione. Senza una risposta sull’abitare, ogni miglioramento di reddito rischia di essere assorbito dai canoni.
Uno sguardo dentro le cifre: perché l’incidenza non basta
Parlare solo di incidenza rischia di nascondere le distanze effettive dalla soglia. L’intensità della povertà — 21% tra le famiglie con minori, 18,4% la media — indica quanto manca per tornare sopra il paniere minimo. Due famiglie con la stessa etichetta “povere” possono essere in condizioni molto diverse: una a pochi euro dalla soglia, l’altra ben al di sotto. Per questo la combinazione di trasferimenti e servizi è decisiva: un contributo monetario uniforme a volte non basta, mentre un servizio (il nido gratuito, la mensa, l’abbonamento ai mezzi) riduce strutturalmente la distanza.
C’è poi il tema della composizione delle famiglie povere. Anche se l’incidenza è molto alta tra gli stranieri, il 67% delle famiglie povere è composto da soli italiani. Significa che la povertà in Italia non è un fenomeno di nicchia ma diffuso nella popolazione autoctona, spesso in aree industriali in transizione, periferie urbane e zone interne. Un approccio non ideologico richiede di leggere insieme i numeri: incidenza per capire dove il rischio è più alto, valori assoluti per capire dove vive la maggior parte delle famiglie povere, intensità per calibrare le misure.
Infine, l’attenzione alla fascia 7-13 anni — 14,9% di povertà assoluta — è fondamentale. È l’età in cui abilità di base e routine educative si consolidano. Tagliare l’attività sportiva, l’inglese, la musica, i campi estivi ha un costo invisibile oggi ma evidente domani. È qui che una politica dei servizi ben disegnata incide sull’equità del Paese nel lungo periodo.
Una fotografia che chiama scelte rapide e misurate
I numeri del 2024 consegnano un messaggio chiaro: la povertà assoluta in Italia resta alta, è socialmente selettiva e territorialmente diseguale. 5,7 milioni di individui e 2,2 milioni di famiglie non coprono l’indispensabile; 1,28 milioni di minori crescono in condizioni di privazione; tra gli stranieri l’incidenza è cinque volte quella degli italiani, ma due famiglie povere su tre sono italiane; le famiglie numerose e con bassi titoli di studio sono le più esposte; il Mezzogiorno ha l’incidenza più alta, ma il Nord concentra la quota maggiore in valori assoluti. Rispetto al pre-Covid, ci sono 1,1 milioni di poveri in più.
Di fronte a questa mappa, la priorità non è moltiplicare le etichette ma ridurre la distanza dalla soglia per chi è più indietro. Lavoro di qualità, alloggi accessibili, servizi per l’infanzia e la scuola, formazione e politiche attive sono le leve che, insieme, possono piegare la curva. Ogni intervento che alza i redditi bassi e taglia i costi fissi dà ossigeno a famiglie che oggi vivono senza margini. È un’agenda concreta, misurabile: meno lavoro povero, più capitale umano, servizi territoriali che funzionano. Perché dietro ogni percentuale ci sono scelte quotidiane, e riportarle sopra la soglia non è solo un obiettivo statistico: è la condizione per tenere coeso il Paese.
🔎 Contenuto Verificato ✔️
Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Istat, ANSA, Codacons, Unione Nazionale Consumatori, Corriere della Sera, La Repubblica.

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