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Perché e-fattura e split hanno dimezzato l’evasione Iva?

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dimezzato l’evasione Iva

Crediti foto: Freepik

Dal 2015 al 2021 il divario Iva si è quasi dimezzato: da oltre 35 miliardi a 17,8 miliardi di euro. È la fotografia che oggi torna d’attualità con le parole del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Vincenzo Carbone, in audizione alla Commissione Anagrafe tributaria. La spiegazione non è un mistero per gli addetti ai lavori: fatturazione elettronica obbligatoria e split payment hanno stretto le maglie della tracciabilità e reso più difficile sottrarsi ai versamenti. Il contributo “strutturale” stimato è ormai noto: 1,7–2 miliardi l’anno di miglior adesione spontanea grazie all’e-fattura e 4,6 miliardi complessivi attribuibili alla scissione dei pagamenti. In poche righe: due strumenti molto diversi fra loro — uno digitale, uno di cassa — hanno ridotto lo spazio per la sotto-dichiarazione e per i mancati riversamenti, portando numeri tangibili, non slogan.

Non è un caso isolato. Le stime europee più recenti sul compliance gap Iva indicano per l’Italia, nel 2022, un disavanzo di circa 16,3 miliardi (pari al 10,6% del gettito potenziale), in ulteriore calo rispetto al 2021. La media Ue resta più bassa, ma la traiettoria italiana è fra le più nette dell’ultimo quinquennio. E qui torna il punto di Carbone: l’anticipo con cui l’Italia ha reso obbligatoria l’e-fattura dal 2019, gestita dal Sistema di Interscambio (SdI), ha creato un ecosistema che altri Paesi stanno adottando proprio ora in chiave europea. Risultato pratico: fatture standardizzate, controlli in tempo quasi reale, incroci automatici, e un meccanismo — lo split payment — che, nelle forniture verso la PA, azzera il rischio che l’Iva incassata finisca “dimenticata” al momento del versamento.

Un effetto di compliance che si vede nei conti

Nel linguaggio fiscale, compliance significa adesione spontanea alle regole. Non parliamo dell’accertamento che scova la frode, ma di tutto ciò che succede prima: quando i contribuenti sanno che i dati sono visibili, standard e incrociabili, l’incentivo a “provare” a eludere si riduce. Il miglioramento si misura in miliardi perché coinvolge una base amplissima di operazioni: microimprese, professionisti, PMI, grandi gruppi. L’e-fattura taglia gli errori materiali e rende più difficile non fatturare; lo split payment toglie a monte la tentazione — o la pressione di liquidità — di trattenere l’Iva nelle catene di appalto e subappalto.

Il ragionamento contabile è semplice. Con l’e-fattura, ogni documento passa per lo SdI, che ne verifica i requisiti minimi formali e lo recapita al destinatario, lasciando una traccia digitale utile per le analisi di rischio. Con lo split, l’Iva non transita più dal fornitore: viene versata direttamente dall’ente pubblico all’Erario. Due logiche complementari. La prima è prevenzione: riduce gli spazi per incongruenze e omissioni. La seconda è garanzia: elimina un’anomalia ricorrente, cioè il mancato riversamento di un’imposta già addebitata in fattura.

Fatturazione elettronica, cosa fa davvero lo SdI

Dal 1° gennaio 2019 la fattura elettronica tra privati non è più un’opzione. Tutte le operazioni B2B e B2C devono transitare in formato strutturato (XML FatturaPA) attraverso il Sistema di Interscambio, il nodo pubblico che riceve, controlla, protocolla e inoltra. Nel tempo l’obbligo è stato esteso: i contribuenti in regime forfettario sono entrati per scaglioni, fino all’obbligo generalizzato dal 1° gennaio 2024. Rimane, per ragioni di privacy, l’esonero dall’e-fattura per le prestazioni sanitarie verso persone fisiche: il divieto è confermato per tutto il 2025 (con regole ad hoc sull’invio dei dati al Sistema Tessera Sanitaria). È un perimetro ormai molto circoscritto, che non intacca l’impianto generale.

Tecnicamente, lo SdI effettua controlli formali (codici, partite Iva, coerenze) e rilascia ricevute puntuali; gli scarti si correggono e si rinviano. Per chi emette, l’obbligo ha significato investimenti iniziali in software, conservazione digitale, processi. Poi è arrivato il ritorno: meno errori, meno duplicazioni, riconciliazioni automatiche con ordini e pagamenti, precompilate più ricche di dati affidabili. Per l’amministrazione, la differenza è ancora più netta: controlli mirati su base dati, analisi settoriali e territoriali, velocizzazione dei rimborsi Iva grazie al tracciato che “racconta” la filiera di acquisti e vendite.

Un dettaglio spesso trascurato è la tempestività. Avere a disposizione dati quasi in tempo reale consente di prevenire fenomeni come le frodi carosello, che vivono di velocità e opacità. Se i nodi della catena sono visibili e le anomalie segnalate subito, l’amministrazione può bloccare sul nascere i comportamenti a rischio. E per i contribuenti regolari il beneficio è pratico: meno richieste di documenti, meno controlli a tappeto, più selettività.

Split payment, perché taglia il rischio-cassa dell’Iva

Lo split payment è la scissione dei pagamenti: il fornitore emette fattura con Iva, ma non incassa l’imposta; la versa direttamente il cliente pubblico all’Erario. La misura è in vigore dal 2015 e ha un perimetro definito dalla legge (PA e altri soggetti individuati). È una deroga alla direttiva Iva e quindi richiede autorizzazione europea: l’Italia è stata autorizzata fino al 30 giugno 2026. Novità importante: dal 1° luglio 2025 le società FTSE MIB sono escluse dallo split e tornano al regime ordinario. È il segnale di una normalizzazione graduale: mantenere lo strumento dove serve, ridurlo dove il rischio è basso e dove gli strumenti digitali garantiscono già un tracciamento sufficiente.

Sul piano economico lo split è potente perché agisce sul rischio-cassa. Eliminando il transito dell’Iva sul fornitore, azzeri ex ante il mancato riversamento. È un vantaggio per i conti pubblici, ma può creare tensioni di liquidità per chi lavora stabilmente con la PA, soprattutto nel subappalto. È il rovescio della medaglia: crediti Iva più frequenti, necessità di rimborsi tempestivi, gestione attenta del circolante. Le imprese chiedono da anni tempi di pagamento certi e corsie veloci per rimborsi e compensazioni. La risposta, negli ultimi anni, è migliorata: la disponibilità dei file fattura nello SdI rende più rapide le istruttorie e riduce i controlli a tappeto; resta però essenziale evitare che i tempi della PA scarichino costi finanziari su chi fornisce beni e servizi.

I numeri del divario Iva: le tendenze che contano

Il dato più citato è ormai scolpito: oltre 35 miliardi di gap Iva a metà del decennio scorso, 17,8 miliardi nel 2021. Nel 2022 la stima europea del compliance gap per l’Italia scende a circa 16,3 miliardi, pari al 10,6% del potenziale. La media Ue è più bassa (attorno al 7%), ma il recupero italiano è tra i più robusti nel periodo 2018–2022, con un taglio di oltre dieci punti percentuali. Soprattutto, il calo si concentra nelle componenti più vulnerabili: filiere a rischio, triangolazioni, segmenti dove la combinazione di e-fattura, reverse charge e split rende più difficile “sparire” dalla circolazione.

Altra osservazione utile: quando si parla di “effetto di compliance” da 1,7–2 miliardi l’anno (e-fattura) e 4,6 miliardi complessivi (split), non si sommano importi come fossero nuove imposte. Sono stimaparametriche del miglior comportamento fiscale imputabile a quegli strumenti, tenendo conto dell’andamento ciclico dell’economia e di altre misure. L’importante, per chi guarda ai conti pubblici, è che la curva del gap prosegua la discesa su base strutturale. E questa discesa, oggi, è misurabile.

Un inciso merita il tema del confronto internazionale. L’Italia resta un Paese con molta Iva potenziale (per dimensione dell’economia e struttura dei consumi) e quindi valori assoluti elevati anche con percentuali in miglioramento. Proprio per questo l’adozione anticipata dell’e-fattura — e la sua efficienza operativa — hanno un peso che va oltre i confini nazionali: il modello sta diventando uno standard di riferimento nelle riforme in corso in Europa.

Imprese: costi iniziali, benefici ricorrenti e nodi da sciogliere

La digitalizzazione fiscale ha un costo di ingresso. Adeguare i gestionali, riorganizzare i workflow contabili, attivare la conservazione digitale, formare il personale: per molti piccoli operatori è stata una salita. Ma l’esperienza degli ultimi anni racconta anche altro. Una volta interiorizzati i nuovi processi, la fattura elettronica ha ridotto errori, tempi morti, duplicazioni e richiesta di carte. Nelle PMI l’integrazione fra e-fattura, ordini e pagamenti ha accorciato la riconciliazione; nelle realtà più grandi ha favorito closing contabili più rapidi e un controllo continuo sui flussi Iva.

Il capitolo split payment è più controverso per natura: non essendoci incasso dell’Iva, l’operatore si ritrova più spesso in credito e ha bisogno di rimborsi o compensazioni veloci, pena la stretta di liquidità. Qui si gioca una parte della credibilità del sistema: se i tempi sono certi, lo strumento funziona senza penalizzare eccessivamente la base produttiva; se sono incerti, il rischio è trasferire costi finanziari dai conti pubblici a quelli privati. Il compromesso in corso — restringere gradualmente l’ambito (come per le FTSE MIB) e migliorare i tempi della PA — va nella direzione giusta.

Infine, due tasselli operativi che valgono per la vita quotidiana di imprese e professionisti. Primo, la tempistica: la fattura elettronica va trasmessa allo SdI in tempi stringenti rispetto all’operazione, e l’accettazione o lo scarto arrivano rapidamente, il che aiuta a correggere subito eventuali incongruenze. Secondo, la qualità del dato: un tracciato coerente e standardizzato riduce i dubbi interpretativi e, a valle, rende i controlli più mirati. È qui che l’amministrazione può e deve insistere: meno burocrazia ripetitiva, più servizi proattivi (precompilate, alert su anomalie, rimborsi veloci) per rinforzare quella compliance che oggi traina il recupero.

Europa: ViDA cambia le regole del gioco (e l’Italia è avanti)

Nel 2025 l’Unione europea ha adottato il pacchetto ViDA – VAT in the Digital Age. La rotta è chiara: e-invoicing e digital reporting diventano pilastri del sistema Iva europeo. Il calendario prevede che dal 2030 scattino gli obblighi per le operazioni B2B intra-Ue con rendicontazione quasi in tempo reale; gli Stati membri potranno, e in parte già possono, introdurre o mantenere obblighi domestici, che dovranno però essere armonizzati entro gennaio 2035. Per molte amministrazioni si tratta di una rivoluzione. Per l’Italia, che dal 2019 vive in un regime di pre-clearance generalizzato, è soprattutto un vantaggio competitivo: c’è esperienza, ci sono infrastrutture, c’è un modello già rodato.

Questo non significa che l’Italia possa limitarsi a “esportare” lo SdI com’è. La convergenza europea porterà specifiche tecniche comuni, vincoli sui tempi di emissione e reporting, e standard di interoperabilità. Servirà quindi una manutenzione accurata: adattare i tracciati nazionali, evitare ridondanze di adempimenti (nessuno vuole doppie comunicazioni per le stesse informazioni), accompagnare imprese e professionisti con linee guida chiare e strumenti semplici. Più qualità del dato, meno attriti: è lì che si gioca il valore aggiunto.

Un altro passaggio di ViDA riguarda la semplificazione per chi opera in più Paesi (single VAT registration) e la piattaforma economy: nuove regole che puntano a chiudere i buchi dove oggi si annidano margini di opacità. Nel complesso, il pacchetto rafforza il concetto che ha sostenuto i progressi italiani: dati tempestivi, standardizzati e condivisibili sono il miglior antidoto al gap.

Cosa serve adesso: tenere la barra dritta sui fondamentali

Il bilancio fin qui è positivo e poggia su evidenze. Ma ridurre l’evasione non è una gara da centometristi: è una maratona di manutenzione. Tre priorità concrete.

La prima è la qualità operativa. Se i rimborsi Iva si accorciano, se le precompilate sono accurate, se gli alert su anomalie arrivano prima che i problemi esplodano, la compliance spontanea cresce. L’amministrazione deve continuare a investire in analisi dei rischi trasparenti, interoperabilità fra banche dati, canali digitali stabili e rapidi. Al contribuente “regolare” interessa una cosa: certezza.

La seconda è il perimetro delle deroghe. Lo split payment ha senso dove il rischio è alto e i vantaggi superano i costi; ha meno senso dove la solidità dei soggetti e i dati nativi dell’e-fattura bastano a presidiare il rischio. L’uscita delle FTSE MIB dal 2025 è un esempio di messa a fuoco. Anche su altri fronti, come l’estensione di regimi di reverse charge mirati, la bussola deve restare analitica e proporzionata.

La terza è la coerenza europea. Con ViDA in marcia, l’Italia può influenzare standard e tempistiche, valorizzando il proprio know-how. Ma se ogni Paese costruisse sistemi incompatibili, a pagare sarebbero le imprese che vendono oltre confine. L’obiettivo è chiaro: armonizzare senza appesantire, sfruttando quello che già funziona.

Un cantiere aperto, ma con risultati che pesano

La cronaca di oggi rimette al centro un fatto: e-fattura e split payment hanno tagliato il divario Iva in Italia in modo rapido e misurabile. I numeri — 35 miliardi a metà del decennio scorso, 17,8 miliardi nel 2021, circa 16,3 nel 2022 — non lasciano spazio a interpretazioni. L’“effetto di compliance” stimato vale miliardi e, soprattutto, stabilizza il sistema: più dati affidabili, più controlli mirati, meno spazio per le frodi. È anche per questo che il modello italiano è diventato un riferimento nella riforma europea di ViDA.

Restano nodi da sciogliere — liquidità per i fornitori della PA, tempi dei rimborsi, esclusioni settoriali per motivi di privacy — ma la direzione è chiara. Con una manutenzione quotidiana, senza forzature, la curva del gap può scendere ancora. Non servono fuochi d’artificio: servono procedure solide, dati puliti, interoperabilità vera, e un’amministrazione che si comporti da alleato dei contribuenti regolari e da incubo di chi scommette sull’opacità.

Dati alla mano, la rotta è tracciata. L’Italia, che ha anticipato il futuro con l’e-fattura e ha usato lo split dove serviva, oggi si trova nella posizione rara di giocare in attacco: consolidare ciò che funziona, alleggerire dove si può, e accompagnare la transizione europea con la credibilità di chi ha già fatto. È un’occasione concreta, non retorica. E i numeri, finalmente, lo dicono chiaro.


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