Perché...?
Scontro tra Calenda e Cattaneo: che cosa si sono detti?

Nel giro di poche ore, Roma, 14 ottobre 2025, il confronto tra Carlo Calenda e Flavio Cattaneo è deflagrato dai corridoi di un forum pubblico alla prospettiva concreta di un’aula di tribunale. Il leader di Azione accusa l’amministratore delegato di Enel di beneficiare, attraverso la distribuzione elettrica, di ricavi e bonus che arrivano in ultima istanza dalle bollette; Cattaneo nega, parla di affermazioni false e annuncia una causa milionaria con l’eventuale risarcimento destinato ad abbassare i costi dell’energia. Al netto degli epiteti volati nell’immediato, il cuore della questione è semplice e riguarda tutti: quale parte della bolletta finanzia la rete, come vengono remunerati gli investimenti e chi controlla che i margini non diventino rendite.
La notizia è rilevante perché coinvolge, da un lato, il maggiore gruppo elettrico italiano e, dall’altro, un parlamentare che ha guidato il dicastero dello Sviluppo economico. Il quando e il dove sono chiari; il perché tocca la tasca degli italiani. Per i lettori, la domanda pratica è questa: la polemica incide subito sulla fattura? Nell’immediato no: le tariffe di rete sono definite da regole e parametri fissati in anticipo, e qualsiasi contenzioso ha tempi lunghi. Ma lo scontro mette sotto i riflettori come si forma il prezzo finale della luce e quanto la rete venga compensata per assicurare qualità e nuovi allacci in un Paese che sta elettrificando consumi e produzione. È qui che l’attenzione pubblica diventa utile.
I fatti del 14 ottobre: accuse, smentite e minaccia di querela
L’innesco arriva nel tardo pomeriggio. A margine di un appuntamento pubblico a Roma, Calenda punta il dito contro i risultati della distribuzione, tira in ballo percentuali di utile elevate e l’ipotesi di bonus legati a quel perimetro di business, definendo “cafone” l’atteggiamento del manager. Cattaneo replica a stretto giro, con toni altrettanto secchi, e soprattutto con un contenuto preciso: le cifre non corrispondono e non esistono bonus agganciati alla distribuzione; per il resto, si vedrà in tribunale. Il vertice del gruppo elettrico mette sul tavolo una causa civile per “svariati milioni”, con l’impegno – se dovesse ottenere un risarcimento – a destinare la somma alla riduzione del costo della luce per i clienti finali.
Il confronto non nasce nel vuoto. Tra i due c’è storia professionale alle spalle, quando l’uno era al Ministero e l’altro alla guida di un grande operatore di telecomunicazioni. All’epoca si discuteva di bandi e regole europee; oggi il terreno è la bolletta e la concessione della rete di distribuzione. La politica si attiva subito: dal fronte di Azione si chiede un intervento del governo e una verifica formale su come sia stata gestita la concessione e su quanto siano cresciuti i costi di rete in questi anni. La risposta del numero uno di Enel resta netta: le accuse sono infondate, i conti dicono altro, e l’azienda tutelerà la propria reputazione nelle sedi opportune.
In termini giornalistici, i fatti accertati sono due. Primo: c’è stato un botta e risposta pubblico con toni sopra le righe. Secondo: il confronto avrà strascichi legali. Sul merito tecnico – percentuali di utile, presenza o meno di bonus, impatto della concessione – siamo davanti a tesi contrapposte che dovranno poggiare su dati e documenti. Ed è su questi aspetti, non sugli epiteti, che si gioca la partita che interessa chi paga la luce.
Che cosa c’è in bolletta e perché importa
Per capire perché lo scontro tocca il portafoglio, bisogna entrare nella struttura della bolletta elettrica. La fattura che arriva a fine mese è composta, semplificando, da quattro macro-voci: quota energia (il costo dell’elettricità acquistata), trasporto e gestione del contatore (che comprende la rete di trasmissione e la rete di distribuzione), oneri legati a politiche pubbliche e imposte. La parte che interessa qui è la rete, ossia il servizio che porta fisicamente l’elettricità dalle cabine fino al contatore di casa e delle imprese, con il relativo servizio di misura.
Questa voce non è “di mercato puro”: è regolata. Significa che l’operatore della distribuzione – per la quota di rete locale – ha ricavi stabiliti secondo parametri fissati dall’autorità competente. L’obiettivo delle regole è bilanciare tre esigenze: remunerare il capitale investito in cavi, cabine e sistemi digitali; garantire qualità e continuità del servizio riducendo interruzioni e guasti; assicurare trasparenza e prevedibilità dei costi per l’utente finale. In pratica, i ricavi per la rete dipendono da capex riconosciuti, ammortamenti, tasso di remunerazione e premi/penalità legati al rispetto di target annuali.
È proprio qui che si innesta la contesa. Quando Calenda parla di margini elevati e di bonus, mette in discussione quanto e come la rete venga remunerata. Quando Cattaneo nega quei numeri e smentisce l’esistenza di bonus per quella specifica attività, difende la coerenza del perimetro regolato e dei meccanismi incentivanti. Chi ha ragione? Per i lettori, la cosa utile è sapere che la rete non è gratis, ma neppure un bancomat: il livello di ricavo è agganciato a regole che, in teoria, devono garantire investimenti e sicurezza senza trasformarsi in una rendita.
Come funziona davvero la distribuzione elettrica
La distribuzione è quel tratto della filiera che porta l’energia dalla media alla bassa tensione, fino al contatore. In Italia esistono più concessionari, ma e-Distribuzione (società del gruppo Enel) copre la quota più ampia del territorio e dei punti di prelievo. Non vende elettricità ai clienti: gestisce la rete locale, effettua allacci, ripara i guasti, sostituisce e legge i contatori, connette impianti rinnovabili e comunità energetiche. È un monopolio naturale: duplicare cavi e cabine sarebbe inefficiente e antieconomico. Per questo motivo la legge affida il servizio a un gestore unico per area, ma sotto una cornice regolatoria.
Questa cornice stabilisce tariffe e standard. Ogni anno vengono definiti gli obiettivi di qualità (interruzioni, tempi di ripristino, connessioni), il capitale investito riconosciuto e il tasso di remunerazione dei mezzi propri e di terzi. Il gestore viene premiato se supera i target e penalizzato se li manca. Nella sostanza: più la rete è affidabile e pronta a connettere nuovi impianti e tecnologie, più ci sono spazi per incentivi; viceversa scattano malus.
Premi e penalità: come si misurano
Gli incentivi non sono “bonus discrezionali” decisi a tavolino tra management e proprietà: fanno parte di un meccanismo automatico. Si misurano con indicatori oggettivi: numero e durata delle interruzioni, tempi per gli allacci, perdite di rete, piani di resilienza a eventi meteo estremi, capacità di accogliere nuova generazione distribuita. Se la rete migliora oltre la soglia-obiettivo, scatta un premio; se peggiora, scatta una penalità. Sono voci che confluiscono nei conti del gestore e che vengono rendicontate. Non si tratta, quindi, di “gratifiche personali” scollegate dal servizio, ma di componenti tariffarie legate a performance misurate e pubbliche.
Questo non significa che il sistema sia perfetto. Significa che esiste una traccia verificabile per capire da dove arrivano i ricavi legati alla rete e come incidono sulla bolletta. Capire questi passaggi aiuta anche a leggere con più lucidità accuse e smentite: quando si parla di “utile del 40%”, per fare un esempio, bisogna distinguere tra margini di gruppo, margini di una singola società, margini lordi e margini netti dopo ammortamenti e oneri finanziari. Le parole contano, ma nei servizi regolati contano soprattutto le definizioni e la perimetrazione.
Concessioni e concorrenza: il nodo del rinnovo
Altro fronte caldo è la concessione del servizio di distribuzione. In teoria, per servizi che sono monopoli naturali, la gara pubblica è lo strumento per assicurare efficienza e accountability al gestore. In pratica, l’ampiezza della rete, la presenza di asset diffusi e la complessità del subentro rendono il tema più articolato. Chi critica i rinnovi senza gara sostiene che si consolidi una posizione dominante che andrebbe periodicamente “messa alla prova” di benchmark e offerte alternative. Chi difende l’assetto attuale replica che i costi di transizione e il rischio di perdita di know-how possono comportare disservizi e maggiori oneri, vanificando il beneficio teorico della competizione.
Nella polemica in corso, la battuta politica si intreccia con questi profili tecnici. La richiesta che emerge dal fronte politico è di verificare con puntualità se le scelte operate sui rinnovi siano state coerenti con le norme, e soprattutto convenienti per i consumatori, alla luce delle ricadute in tariffa. L’azienda, dal canto suo, rivendica la regolarità dei processi e richiama l’attenzione su un punto spesso sottovalutato: per sostenere piani di investimento pluriennali serve stabilità regolatoria, senza la quale i costi del capitale e la velocità dei cantieri ne risentono. Anche qui, l’unica risposta utile è nei numeri: quanto è costato rinnovare senza gara, quanti benefici ha portato in termini di qualità e tempi di connessione, quale sarebbe stato il costo di una gara e del relativo subentro.
Le posizioni a confronto: accuse e smentite, punto per punto
Sul piano delle dichiarazioni, le posizioni sono chiare e distinte. Calenda sostiene che la distribuzione – attività pagata in ultima istanza con le bollette – generi utili molto elevati e che il vertice del gruppo abbia beneficiato di bonus legati a quel perimetro, aggiungendo un giudizio tranchant sullo stile del manager. Di fronte, Cattaneo definisce quelle cifre inesatte, ribadisce di non percepire bonus sulla distribuzione, ricorda i risultati industriali ottenuti nelle precedenti esperienze manageriali e annuncia una azione legale per la tutela della propria reputazione e di quella della società. In mezzo, l’intervento di Matteo Richetti che contesta la caduta di stile da parte di un dirigente di un’azienda a controllo pubblico, e chiede che il Governo risponda nel merito sui costi di rete e sulla concessione.
Per il lettore, la griglia analitica è questa. Primo: i numeri. Quando si citano percentuali di utile, è fondamentale sapere a quale perimetro si riferiscono (gruppo, singola società, singolo business regolato) e in quale periodo. Secondo: i bonus. Occorre distinguere tra sistemi incentivanti tariffari – che riguardano la società in quanto gestore della rete – e retribuzione variabile del management, che segue policy interne e obiettivi plurimi, normalmente non legati a un solo business regolato. Terzo: gli effetti in bolletta. La rete pesa sulla fattura, ma non è l’unica voce: prezzi all’ingrosso, oneri, tasse e consumi individuali fanno la differenza. Affermare che la rete da sola “gonfi” la bolletta richiede evidenze solide e comparazioni omogenee.
In assenza di un dossier pubblico con tabelle e metodologie condivise, è inevitabile che la discussione rimanga sul piano delle affermazioni contrapposte. Ecco perché l’annuncio di un contendere in tribunale può avere un effetto collaterale utile: costringere le parti a mettere a verbale numeri, documenti, perimetri di confronto. La trasparenza – anche sotto la spinta di un giudizio – è l’antidoto migliore alle semplificazioni.
Le ricadute: tribunali, governo e autorità di regolazione
Sul fronte giudiziario, la minaccia di una querela per diffamazione apre una pista precisa. In casi simili, i giudici valutano tre elementi: verità dei fatti allegati, pertinenza dell’interesse pubblico, continenza espressiva. Nel dibattito su bollette e reti, l’interesse pubblico è evidente. Restano da verificare la correttezza dei numeri citati e il modo in cui sono stati esposti. Se la causa verrà effettivamente depositata, si apre una fase di istruttoria che può prevedere perizie sui conti, acquisizione di bilanci e di documentazione regolatoria, audizioni di tecnici. Non è un processo rapido, e non produce effetti immediati sulla tariffa.
Sul fronte istituzionale, la palla può passare per il Parlamento con interrogazioni e audizioni, e per i Ministeri competenti. È fisiologico che un caso così visibile solleciti richieste di chiarimento e rendicontazione. Per i lettori è utile ricordare che il perimetro tariffario della rete e i relativi parametri non vengono decisi nelle sedi politiche giorno per giorno, ma in cicli regolatori pluriennali, con consultazioni pubbliche e documenti tecnici. Questo non significa che il decisore politico non abbia voce: la politica industriale e la governance delle partecipate orientano priorità e ritmo degli investimenti, e possono chiedere più trasparenza nella comunicazione al pubblico.
Infine, c’è il tema della reputazione. Un grande gruppo infrastrutturale opera su mercati finanziari, dialoga con istituzioni e clienti. Le parole dei vertici e dei decisori pubblici hanno peso. Da un lato occorre difendere la possibilità della critica e del controllo; dall’altro serve misurare i toni per non confondere la cronaca con la delegittimazione. È una linea sottile, ma determinante per mantenere fiducia in un settore dove la stabilità è un valore in sé.
Che cosa cambia per i consumatori adesso
Per chi guarda la bolletta e si chiede se domani pagherà di più o di meno, la risposta, oggi, è lineare: nulla cambia immediatamente a causa di questo scontro. Le componenti tariffarie seguono calendari e regole prestabilite. Quello che può cambiare, se la discussione prosegue con numeri alla mano, è la quantità di informazioni a disposizione del pubblico su come vengono usate le entrate di rete e quali risultati producono in termini di qualità del servizio e nuove connessioni. È un terreno concreto: tempi per collegare un impianto fotovoltaico, interventi dopo un guasto, continuità dell’erogazione durante eventi meteo intensi, gestione dei picchi di domanda.
Un altro aspetto riguarda gli investimenti programmati. La transizione energetica chiede reti più robuste, digitali e capaci di accogliere nuova generazione distribuita e pompe di calore. Ogni ritardo in un cantiere o in un piano di resilienza si traduce in collo di bottiglia a valle: tempi più lunghi per allacciare un impianto, accodamenti per le pratiche, minore flessibilità per la domanda. Al contrario, reti che crescono al passo con i nuovi consumi e le nuove produzioni aiutano a stabilizzare i prezzi all’ingrosso e ridurre interruzioni. Per questo motivo la discussione sulla remunerazione della rete non è un esercizio astratto: riguarda la capacità del Paese di assorbire la nuova elettricità senza scaricare inefficienze in bolletta.
C’è poi una dimensione di trasparenza. In un settore così tecnico, spiegare con linguaggio chiaro che cosa si paga e a che cosa serve fa una differenza enorme nella percezione. Se la quota rete è tracciabile su opere e migliorie misurabili, la fiducia cresce; se resta una “black box”, ogni incremento – anche motivato – viene percepito come sospetto. Questo scontro, proprio perché ha acceso i riflettori, può diventare l’occasione per rendicontare al pubblico non solo ai mercati: quanti chilometri di linee sostituiti, quante cabine rinnovate, quanti contatori intelligenti attivati, quanti giorni medi per una connessione.
Un confronto che impone un salto di qualità nei numeri
Il duello tra Calenda e Cattaneo, al di là delle frasi sopra le righe, mette sul tavolo una necessità non rinviabile: alzare lo standard del confronto pubblico su reti, concessioni e bollette. Chi accusa deve portare dataset chiari, distinguendo perimetri e periodi; chi risponde deve pubblicare in modo semplice i driver dei risultati e spiegare quale parte della performance deriva da efficienza operativa, incentivi regolatori, congiuntura o tagli dei costi. È l’unico modo per evitare che la discussione si riduca a slogan, con il rischio di svalutare ciò che davvero conta: investimenti efficaci e qualità del servizio.
Sul piano operativo, i punti di verifica utili per i prossimi mesi sono concreti. In primo luogo, la trasparenza sui premi/penalità legati alla qualità: quanto hanno inciso, come sono stati ottenuti e quali risultati hanno dato agli utenti in termini di minori minuti di interruzione e tempi di allaccio. In secondo luogo, l’andamento dei tempi di connessione per impianti rinnovabili e comunità energetiche, oggi una delle criticità più sentite da imprese e famiglie. Terzo, la resilienza climatica della rete: quanto si è investito per ridurre l’impatto di eventi meteo estremi, con piani e cantieri misurabili. Quarto, la coerenza tra ricavi riconosciuti e piano di investimenti: ogni euro in più deve trovare riscontro in un miglioramento oggettivo.
Se il dibattito si sposterà su questi indicatori, il Paese avrà guadagnato qualcosa di concreto. Se resterà confinato alla dialettica dei botta e risposta, l’effetto sarà un rumore che non aiuta a pagare meno né a costruire una rete migliore. In mezzo, c’è la responsabilità di tutti gli attori: politica, management, autorità, informazione. Non servono promesse apodittiche: servono grafici semplici, serie storiche leggibili, obiettivi annuali verificabili. È l’unica via per trasformare la tensione di oggi in benefici misurabili domani.
Rotta pragmatica per uscire dalla polemica
L’energia non ha bisogno di slogan, ma di chiarezza praticabile. La polemica tra Calenda e Cattaneo è un promemoria forte: i costi di rete e i meccanismi di concessione non sono un tema per addetti ai lavori, ma per chiunque accenda una luce o apra un capannone. La domanda a cui rispondere – con atti, non con aggettivi – è quanto la rete costi oggi, quanto si deve investire domani e quali risultati misurabili chiediamo in cambio. A partire da qui, la rotta è chiara: trasparenza sui numeri, rendicontazione degli incentivi, tempi certi per gli allacci, piani di resilienza pubblici e monitorabili. È su questo terreno che si capisce davvero chi paga che cosa e perché. Tutto il resto è contorno.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: ANSA, la Repubblica, ARERA, e-Distribuzione, Gazzetta di Reggio, Alanews.

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