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Roccella sulle gite ad Auschwitz: ha ragione? Segre risponde

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Roccella sulle gite ad Auschwitz

No. La ricostruzione secondo cui le visite scolastiche ad Auschwitz sarebbero state promosse per confinare l’antisemitismo dentro il perimetro del fascismo non regge né sul piano storico né su quello normativo e didattico. Sì. La replica di Liliana Segre chiarisce il punto con nettezza: la memoria documentata è uno strumento civile, non un espediente di parte; serve a riconoscere i fatti, a prevenire l’odio antiebraico di ieri e di oggi, a responsabilizzare le istituzioni. Nei viaggi della memoria la scuola italiana non cerca alibi ideologici: costruisce conoscenza, chiede metodo, verifica le fonti, restituisce senso pubblico a ciò che è accaduto.

Il quadro attuale lo dimostra: le scuole organizzano visite che sono esito di preparazione in classe, di accompagnamento storico e di rielaborazione al rientro; il Ministero sostiene programmi strutturati con le comunità ebraiche e con i memoriali; gli enti locali investono per permettere a più studenti possibile di partecipare. La memoria è pratica educativa, non propaganda. E quando una testimone come Segre interviene, la bussola si riallinea: prima i fatti, poi le opinioni. È su questo terreno che le parole della ministra Eugenia Roccella non stanno in piedi.

Che cosa è stato detto, quando e perché è diventato un caso

Le dichiarazioni sono arrivate il 12 ottobre 2025 a Roma, durante un convegno pubblico dedicato al rapporto tra storia e uso politico della memoria. Nel suo intervento la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità ha definito le visite scolastiche ad Auschwitz come “gite”, sostenendo che sarebbero state “incoraggiate e valorizzate” per ribadire che l’antisemitismo “era una questione collocata nel passato e nell’area del fascismo”. Ha aggiunto che in Italia “il problema era essere antifascista, non essere antisemita”, e che oggi occorrerebbe “fare i conti con il nostro antisemitismo”. La formula scelta – quell’uso di “gite” riferito ad Auschwitz – ha acceso la miccia. Non è solo una scelta lessicale: è un frame. Riduce un dispositivo didattico in una scampagnata, suggerisce un intento politico univoco, insinua il sospetto che la scuola abbia usato la Shoah per un messaggio di parte.

La reazione è stata immediata e non per riflesso ideologico. Liliana Segre, senatrice a vita, deportata a tredici anni ad Auschwitz-Birkenau e tra le voci più autorevoli della memoria pubblica italiana, ha risposto con fermezza: la “memoria della verità storica” non ferisce chi cerca la verità, ma chi la teme. La scuola – ha ricordato in sostanza – non organizza passatempi ideologici; accompagna ragazze e ragazzi a incrociare luoghi, documenti, testimonianze. In mezzo sono arrivati commenti di forze politiche e associazioni, ma il punto che conta, per i lettori, è uno: di che cosa stiamo parlando davvero quando discutiamo di Auschwitz con le classi.

Fatti e norme: cosa dicono i programmi e la legge

Il sistema educativo italiano non ha mai trattato i viaggi della memoria come un totem o come un rito vuoto. Si tratta di percorsi didattici integrati, spesso progettati nell’ambito dell’educazione civica, con fasi obbligate: preparazione in classe mediante fonti, letture, mappe; esperienza in loco nei campi o nei luoghi italiani della persecuzione; rielaborazione finale con relazioni, mostre, podcast, incontri pubblici. In parallelo, il quadro normativo ha assunto in maniera sempre più esplicita che quei viaggi sono utili: nel 2025 è stato istituito un fondo nazionale dedicato ai “viaggi della memoria” per le scuole secondarie, con l’obiettivo di favorirne l’organizzazione e l’accesso anche a chi non potrebbe sostenerne i costi. È una scelta politica chiara: lo Stato riconosce la funzione formativa di quelle esperienze e le sostiene con risorse stabili.

Accanto al livello nazionale, molte amministrazioni locali – Comuni, Città metropolitane, Regioni – finanziano da anni delegazioni di studenti e insegnanti. Ci sono esempi consolidati: le uscite coordinate con il Ministero dell’Istruzione e del Merito e con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che portano centinaia di studenti ogni gennaio a Cracovia e ad Auschwitz-Birkenau, in coincidenza con la Giornata della Memoria; i programmi delle principali città, come Roma Capitale, che organizza il suo Viaggio della Memoria con un bando annuale per le scuole e una restituzione pubblica del lavoro didattico. Non si tratta di gite simboliche: sono progetti strutturati, con docenti formati, storici e staff dei memoriali coinvolti, tempi e strumenti di verifica.

I numeri contano perché fotografano il carattere pubblico dell’impegno. Il viaggio nazionale MIM–Ucei degli ultimi anni coinvolge tipicamente circa cento studenti da tutta Italia, selezionati per merito e per rappresentatività, accompagnati da docenti e staff scientifico. A questo si sommano migliaia di partecipanti nelle iniziative promosse dagli enti locali e dalle reti territoriali, che spesso riportano in classe il lavoro sotto forma di prodotti divulgativi: dossier, giornali di istituto, podcast civici, restituzioni aperte alla cittadinanza. Non siamo di fronte a un episodio isolato né a una prassi estemporanea: è un ecosistema educativo che lavora da tempo con obiettivi trasparenti.

Come funzionano davvero i viaggi della memoria

La differenza tra una gita e un viaggio della memoria si vede nella progettazione. Si parte mesi prima con una preparazione che, nelle migliori esperienze, integra storia italiana ed europea, leggi razziali del 1938, dinamiche della deportazione, storie locali di quartiere o di paese. In aula si leggono diari, si analizzano fotografie d’epoca, si consultano registri e documenti, si ascoltano testimonianze dirette o registrate dei sopravvissuti. Le classi discutono parole e definizioni – persecuzione, deportazione, annientamento – e imparano a riconoscere il peso delle scelte amministrative e dei linguaggi burocratici che hanno reso possibile l’orrore.

Sul posto, la visita è scandita da punti-chiave che non hanno nulla di spettacolare: i binari, la rampa, le baracche, le camerate, gli oggetti personali, il filo spinato, i resti delle camere a gas e dei forni. La guida – spesso personale dei memoriali o storici delle fondazioni partner – non propone sermoni ma contestualizzazioni, con continue richieste di riscontro: date, mappe, organigrammi, testimonianze incrociate. Quando è possibile, parlano i testimoni: uomini e donne che portano sul proprio corpo e nella propria memoria l’esperienza dei Lager. È uno dei momenti più intensi, ma non l’unico. Lo è anche la discussione tecnica sulla logistica dello sterminio, sulla pianificazione amministrativa, sulle complicità locali e sull’apparato industriale che ha reso esecutivo il progetto nazista.

Il ritorno in classe chiude il cerchio: restituzione scritta e orale, documentari autoprodotti, mostre con materiali raccolti, incontri pubblici aperti ai genitori e alla comunità. Le commissioni di valutazione scolastica trattano quelle attività come percorsi di apprendimento a tutti gli effetti: si assegnano compiti, si valutano competenze, si misurano risultati. La differenza con un’escursione scolastica ordinaria, qui, non è una sfumatura: è l’architettura pedagogica.

La replica di Segre e il valore delle testimonianze

In un dibattito che rischiava di scivolare negli slogan, la voce di Liliana Segre ha rimesso i paletti. La senatrice a vita ha contestato sia la definizione di “gite” sia l’idea che quelle visite siano state create per “incentivare l’antifascismo”. Ha ricordato i fatti che, in un Paese come l’Italia, non sono opinabili: le leggi razziali del 1938 promulgate dal regime fascista; la collaborazione attiva della Repubblica Sociale Italiana nelle deportazioni; il coinvolgimento di segmenti dell’amministrazione, della polizia, della società civile. Non si tratta di attribuire colpe collettive a distanza di decenni, ma di accertare responsabilità storiche per costruire una democrazia più consapevole. “La memoria della verità storica – ha scandito – fa male solo a chi conserva scheletri nell’armadio”, spiegando che l’educazione alla memoria serve a proteggere le giovani generazioni dalla retorica dell’odio.

Il peso della sua replica non è simbolico: è metodologico. Segre parla da testimone, ma anche da educatrice di fatto, abituata a confrontarsi con classi intere e con docenti. La sua posizione non chiede deferenza: chiede metodo. Incrociare fonti, leggere i documenti, visitare i luoghi, ascoltare le voci. È lo stesso alfabeto della storiografia insegnato a scuola quando si lavora in laboratorio: niente scorciatoie, niente slogan, controllo incrociato e restituzione pubblica. Se questi sono i parametri, la rappresentazione dei viaggi della memoria come un dispositivo “contro” qualcuno non sta in piedi.

Antisemitismo ieri e oggi: cosa insegna davvero la didattica

L’argomento più ricorrente nella polemica è che la memoria della Shoah, così praticata, rischierebbe di limitare l’antisemitismo a un’epoca e a un’area politica. È un’obiezione infondata. I viaggi della memoria sono, da vent’anni, uno spazio di studio comparato in cui si ricostruisce l’antisemitismo come fenomeno che attraversa secoli e contesti, dalle predicazioni teologiche medievali alle teorie razziste ottocentesche, fino ai totalitarismi del Novecento. La scuola non propone scorciatoie: mostra continuità e rotture, chiarisce i rapporti tra propaganda e leggi, tra linguaggi d’odio e apparati amministrativi, tra stato di diritto e sospensione delle garanzie. E aggancia il tutto al presente, non per forzare equivalenze ma per insegnare criteri di distinzione: la differenza tra critica politica legittima e odio identitario, tra conflitti geopolitici e caccia all’ebreo nelle strade e nelle università.

In concreto, le classi lavorano su casi-studio: scritte antisemite su un portone di quartiere, un volantino negazionista, un meme virale che manipola fotografie storiche. Le insegnanti chiedono di smontare quei casi con gli strumenti acquisiti: individuare fallacie logiche, rintracciare fonti originali, ricostruire il contesto. Si apprende che termini come “soluzione finale” erano tecnicismi eufemistici; che parole apparentemente neutre – “trasferimento”, “rieducazione”, “ordine” – coprivano l’annientamento. È un processo che non ha colore di partito: ha valore civico. E produce effetti osservabili: studenti più esigenti con le fonti, meno vulnerabili alla disinformazione, più attenti al peso di ciò che leggono e condividono.

Università e scuole: dove passa davvero la riflessione

Nel fuoco della discussione è entrata anche l’idea che le università sarebbero “luoghi di non riflessione”. È una rappresentazione parziale. In Italia operano da decenni centri di ricerca, corsi, dottorati, cattedre di storia contemporanea e di studi ebraici che hanno formato generazioni di docenti. Molti progetti scolastici nascono proprio in collaborazione con dipartimenti universitari, con istituti storici della Resistenza e con i memoriali. Se si vogliono criticare episodi o derive, lo si faccia; ma la scorciatoia che svuota di senso le istituzioni della conoscenza non aiuta. Il modo più serio per migliorare i viaggi della memoria non è delegittimarli: è rafforzarne la qualità, pretendere formazione continua per i docenti accompagnatori, ampliare la mappa dei luoghi visitati includendo siti italiani ancora poco frequentati.

Cosa si può fare meglio: proposte concrete, non slogan

C’è sempre margine per alzare l’asticella. Se davvero l’obiettivo comune è combattere l’antisemitismo presente, ci sono almeno tre linee operative chiare. Primo: potenziare i laboratori di preparazione e restituzione, con rubriche di valutazione condivise e indicatori di impatto sull’apprendimento, così da uscire dalla percezione che la visita sia un episodio a sé. Secondo: integrare i luoghi. Oltre ad Auschwitz e Birkenau, mappare e visitare i luoghi italiani della persecuzione e della detenzione – archivi, carceri, campi d’internamento, siti di strage – per legare la storia europea alla responsabilità nazionale. Terzo: garantire l’accesso. I fondi pubblici devono azzerare le barriere economiche, e le scuole vanno supportate nella logistica, nella sicurezza, nell’inclusione degli studenti con disabilità. Tutto questo è già in parte in corso, ma va consolidato con decreti attuativi, monitoraggi e pubblicazione dei dati.

Le comunità ebraiche, i memoriali e gli istituti storici sono interlocutori naturali di questo lavoro. Lo stesso vale per gli uffici scolastici regionali, che possono coordinare le reti di scuole per far crescere competenze condivise. C’è poi un tema di linguaggio pubblico: rispettare le parole. Definire quelle esperienze “gite” non aiuta nessuno, nemmeno chi legittimamente chiede che la memoria sia anche uno strumento per leggere l’oggi. Le istituzioni hanno il dovere di precisione: se vogliono discutere, mettano sul tavolo proposte, linee guida, misure di accompagnamento; non insinuazioni che gettano discredito su docenti e studenti.

Perché il nodo riguarda tutti, non solo la scuola

Il rapporto tra memoria pubblica e democrazia non è un tema per addetti ai lavori. Riguarda la qualità del dibattito, il modo in cui una comunità definisce i confini dell’accettabile, la tenuta delle sue istituzioni. Se accettiamo l’idea che i viaggi della memoria siano strumenti di parte, apriamo una falla: tutto diventa sospetto, ogni percorso educativo è esposto alla delegittimazione. L’effetto collaterale è devastante per chi lavora in classe, spesso con risorse limitate ma con un senso alto del proprio ruolo.

C’è poi un punto che la replica di Segre rende evidente: riconoscere le responsabilità storiche non è un vezzo identitario, è una condizione per affrontare il presente senza scorciatoie. Non si tratta di dire che “tutto è fascismo”, ma di leggere ciò che fu fascismo in Italia – leggi, apparati, collaborazioni – e di capire in che modo quel passato ci interroga oggi, quando parole e gesti antisemiti tornano ciclicamente a galla. Se c’è un rischio da evitare è proprio quello di banalizzare: usare Auschwitz come una clava nel dibattito di giornata o, all’opposto, ridurla a un’icona senza contenuto.

L’interesse pubblico è che la scuola continui a lavorare con serietà, sostenuta da norme chiare, da finanziamenti stabili, da una rete istituzionale che va dai ministeri ai memoriali, dai comuni alle università. La discussione può e deve proseguire, ma sul terreno dei dati e delle pratiche, non delle caricature. Le parole di una ministra hanno un peso specifico: quel peso chiede responsabilità.

La memoria che forma cittadini

Il punto di caduta è semplice: i viaggi della memoria funzionano quando sono fatti bene. Non trasformano gli studenti in militanti; li aiutano a leggere i documenti, a riconoscere il pregiudizio, a collegare storia e diritto, a distinguere tra conflitti politici e odio identitario. Le classi che tornano da Auschwitz non escono con un’etichetta, ma con domande più precise e strumenti più robusti. È il risultato di un metodo che la scuola italiana ha affinato negli anni e che la politica – tutta – dovrebbe proteggere, migliorare, non delegittimare.

È la ragione per cui la posizione di Roccella non convince. Non perché la discussione sia vietata, ma perché la premessa è sbagliata. Non sono “gite” e non sono state “inventate” per raccontare che l’antisemitismo esisteva solo nel fascismo. Sono percorsi di studio sorretti da una rete di istituzioni, testimoni, storici, docenti, enti locali; hanno una base normativa e una pratica educativa riconoscibile. E quando Liliana Segre ricorda che la memoria della verità storica “fa male solo a chi ha scheletri nell’armadio”, non sta alzando il volume della polemica: sta riportando la discussione dentro il perimetro dei fatti. È lì che, per i lettori, la risposta è già scritta.


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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: La RepubblicaCorriere della SeraANSALa StampaComune di RomaCittà metropolitana di Roma.

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