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Perché in Madagascar l’esercito ha preso il potere oggi?

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Perché in Madagascar l'esercito ha preso il potere

Un’unità d’élite dell’esercito malgascio, il Capsat, ha annunciato di aver preso il controllo del Paese dopo settimane di proteste di piazza e dopo il voto dell’Assemblea nazionale che ha destituito il presidente Andry Rajoelina. Il capo dello Stato, che aveva appena tentato di sciogliere per decreto la Camera, si è allontanato dal territorio nazionale sostenendo di aver subito un tentativo di assassinio e affermando di restare il presidente legittimo. Nelle stesse ore, colonne di mezzi militari hanno percorso le arterie di Antananarivo, tra applausi di parte della popolazione e timori diffusi per l’avvio di una nuova transizione guidata dai militari.

Le ragioni immediate di questo strappo stanno nella combinazione di tre fattori: il crollo di consenso dovuto a blackout elettrici e interruzioni dell’acqua in tutto il Paese; la saldatura tra piazze giovanili e settori delle forze di sicurezza, con reparti che hanno rifiutato di reprimere; lo scontro istituzionale esploso quando Rajoelina ha cercato di sciogliere l’Assemblea per decreto, spingendo i deputati a votarne la destituzione. A fare da detonatore sono stati l’impeachment in aula, la fuga del presidente e l’annuncio in diretta del colonnello Mickael (Michael) Randrianirina: governo di transizione, istituzioni in parte sospese e promessa di elezioni, con un orizzonte che oscilla tra pochi mesi e fino a due anni.

Che cosa è successo oggi ad Antananarivo

Nel pomeriggio, la Camera ha approvato la destituzione di Rajoelina al termine di una seduta ad alta tensione, mentre all’esterno i cortei si ingrossavano. La presidenza ha bollato il voto come nullo, ricordando il decreto di scioglimento firmato poche ore prima, ma il segnale politico è apparso chiaro: il presidente era rimasto isolato. Pochissimo dopo, il Capsat – la stessa unità che nel 2009 contribuì all’ascesa di Rajoelina – ha annunciato la presa del potere. Humvee e pick-up armati hanno attraversato la capitale, presidio dei nodi sensibili e presenza visibile in centro. Il colonnello Randrianirina ha promesso un governo di transizione e urne “quando possibile”, mentre venivano segnalate limitazioni alle attività di alcune istituzioni, con l’Assemblea nazionale come unico organo dichiarato operativo dai militari.

In serata, la situazione si è cristallizzata intorno a due narrazioni opposte. Da un lato i sostenitori del presidente hanno definito il voto “illegittimo” e parlato di “golpe”, ribadendo che Rajoelina “rimane in carica”. Dall’altro la leadership militare ha insistito sul carattere “necessario” dell’intervento, motivandolo con la vacanza di potere e con l’esigenza di ristabilire ordine e servizi. I leader della protesta giovanile hanno chiesto date certe, rifiutando l’idea di una transizione a tempo indeterminato. Intanto il conteggio dei morti delle ultime settimane di scontri – almeno 22 – ha continuato a gravare sul clima della capitale, mentre famiglie e commercianti hanno chiesto sicurezza e prevedibilità.

Perché i militari sono intervenuti: cause e miccia della crisi

Il contesto socioeconomico spiega gran parte del cedimento. Blackout ripetuti, rubinetti a secco, bollette fuori controllo e interruzioni dei servizi essenziali hanno esasperato un Paese in cui povertà e informalità sono ampie e diffuse. La qualità della vita è scivolata sotto una soglia di sopportazione: frigoriferi spenti, scorte di cibo andate a male, macchine per cucire ferme, officine chiuse, telefoni senza batteria e bambini che studiano al buio. La crisi elettrica e quella idrica non sono percepite come problemi tecnici, ma come ingiustizie quotidiane. Da qui la spinta delle piazze giovani, coordinate sui social e identificate nel racconto pubblico come “Generazione Z Madagascar”, che hanno trasformato il malcontento diffuso in un movimento strutturato, con presìdi, assemblee e marce.

Sul piano politico, il governo è apparso lento e confuso nelle risposte. Promesse di piani urgenti per la rete elettrica e l’acqua non si sono tradotte in risultati rapidi, mentre accuse di corruzione e clientelismo hanno alimentato un sentimento di rifiuto che ha travolto la narrazione ufficiale. Il passaggio chiave si è consumato nelle forze di sicurezza: dapprima neutralità, poi smarcamento, quindi adesione di alcuni reparti ai manifestanti. Quando il Capsat ha giudicato insostenibile la situazione, è passato dall’astensione all’intervento, sostenendo che non ci fosse un governo effettivo e che gli apparati fossero paralizzati. Lo scontro istituzionale sullo scioglimento della Camera ha completato il quadro: Parlamento contro presidenza, strada contro palazzo, cascos blu interni che scelgono di non reprimere.

Chi comanda ora: Capsat e il colonnello Randrianirina

Il Capsat è un’unità d’élite con peso operativo e simbolico. Nel 2009 fu determinante nel cambio di potere che portò Rajoelina ai vertici. Oggi la ruota gira e il suo comandante, il colonnello Mickael (Michael) Randrianirina, è il volto della nuova catena di comando. Messaggio ufficiale: garantire sicurezza, costruire un governo di transizione, preparare elezioni. Messaggio politico: “abbiamo risposto alle richieste del popolo”. In mezzo, una variabile decisiva: il tempo. Sono circolate due finestre. La prima, breve, invoca il ritorno al voto in circa 60 giorni, richiamandosi alla prassi in caso di vacanza della presidenza. La seconda, lunga, parla di 18-24 mesi per riparare la macchina amministrativa, ristabilire servizi e aggiornare gli strumenti elettorali. La scelta non è tecnica: è politica e si consumerà tra caserme, Parlamento e pressioni dei partner esterni.

La figura di Randrianirina condensa consenso e scetticismo. Da un lato, una parte della popolazione lo vede come l’uomo dell’ordine in grado di fermare le violenze, riaccendere le centrali e far tornare l’acqua nelle case. Dall’altro, organizzazioni civiche e attivisti temono che la transizione diventi una nuova normalità, con decreti al posto delle leggi e poche garanzie per opposizioni, media e magistratura. La credibilità della giunta si misurerà nei primi giorni: più che con discorsi, con interruzioni dimezzate, orari certi e conti in bolletta che iniziano a scendere.

Il contenzioso istituzionale: decreti, impeachment e cornice legale

Il nodo giuridico è corposo e, al momento, non univoco. Rajoelina ha firmato un decreto di scioglimento dell’Assemblea nazionale. I deputati hanno replicato con l’impeachment, sostenendo che la Camera fosse pienamente in funzione e che il decreto fosse privo di fondamento. La presidenza ha definito nullo il voto, mentre i militari hanno fatto sapere di considerare la Camera operativa per traghettare il passaggio. Nel mezzo, la Corte costituzionale e le altre istituzioni: si è parlato di sospensioni o limitazioni ad alcuni organi, non sempre comunicate in modo coerente nelle prime ore. La sostanza è che la catena di legittimità è temporaneamente frammentata e che ogni giorno senza un percorso chiaro aumenta il rischio di contenziosi e paralisi amministrativa.

La soluzione minima, utile al Paese e intellegibile dagli attori internazionali, richiede tre tasselli: un atto formale che definisca l’assetto transitorio e i poteri dei vari organi; un calendario con date verificabili per iscrizioni elettorali, campagna e voto; meccanismi di vigilanza che tutelino diritti civili, stampa e opposizioni. Senza questi passaggi, il conflitto di norme rischia di tradursi in incertezza economica e in una protesta che si riaccende, con un costo umano e finanziario che il Madagascar non può permettersi.

Effetti immediati su economia e vita quotidiana

La prima cartina tornasole è nei quartieri di Antananarivo e nelle città medie: interruzioni più brevi, uffici aperti, trasporti regolari, ospedali funzionanti. Commercianti e artigiani misurano l’emergenza in giorni di cassa chiusa e scorte perse. Le famiglie chiedono prezzi stabili e orari certi dell’erogazione dei servizi. Le scuole hanno bisogno di sicurezza e energia per restare aperte. Sullo sfondo, il dato strutturale: una quota molto elevata di popolazione vive in povertà e dipende dal lavoro informale, dunque ogni blocco si traduce in redditi bruciati e debiti.

Il turismo, che porta valuta pregiata, subisce disdette e stop cautelativi. Compagnie aeree e assicurazioni ricalibrano i rischi. Operatori locali sospendono tour, guide restano senza incarichi, alberghi riducono l’occupazione. Le filiere dell’export – dall’agricoltura ai minerali – lavorano con margini sottili: bastano coprifuoco o posti di blocco per allungare tempi di consegna e far saltare contratti. La prima decisione economica della transizione non può che essere operativa: piani rapidi su rete elettrica e idrica, scorte di carburante, priorità per ospedali e scuole, trasparenza sui tempi. Messaggi semplici e verificabili sono la migliore valuta di fiducia nei mercati.

Gli attori esterni e la pressione per tempi certi

Ogni crisi malgascia ha un riflesso internazionale. Partner africani, Unione Africana e Nazioni Unite chiedono non violenza e ritorno alla legalità. Paesi europei e partner bilaterali legano il sostegno a passi concreti: roadmap, tutele, indagini sugli abusi durante le proteste. La Francia, per ragioni storiche e logistiche, è osservata con lente d’ingrandimento: il decollo del presidente su un aereo militare francese ha acceso le polemiche, ma la priorità di Parigi resta tutela dei connazionali e stabilità. Organizzazioni non governative premono per garantire continuità a programmi sanitari e scolastici, avvertendo che interruzioni prolungate avrebbero un costo umano altissimo.

Per la giunta militare questo quadro è al tempo stesso vincolo e opportunità. Vincolo, perché senza calendari e tutele credibili il rischio è quello di sanzioni o sospensione di finanziamenti. Opportunità, perché impegni misurabili possono sbloccare aiuti condizionati utili a riaccendere le luci e far scorrere l’acqua. In concreto, apertura ai mediatori, accesso facilitato per osservatori elettorali e dati pubblici su reti e interruzioni sono tre mosse a costo limitato con alto ritorno in credibilità.

Gli scenari nelle prossime settimane: cosa è realistico aspettarsi

La traiettoria più virtuosa è una finestra breve verso le urne. Implica che militari e Parlamento concordino un mandato limitato, con poteri definiti e scadenze da rispettare. Sessanta giorni sono pochi ma non impossibili se l’obiettivo è un voto con standard essenziali e monitoraggio internazionale. Beneficio: riduzione del rischio paese, rientro del turismo, ossigeno agli investimenti. Rischio: tempi tecnici stretti, registri elettorali da aggiornare, sicurezza ai seggi da garantire.

Lo scenario intermedio è una transizione di 12-18 mesi con priorità ai servizi. Qui la giunta si impegna su elettricità, acqua, carburanti, scuole e ospedali, affiancando riforme mirate su trasparenza degli appalti e anticorruzione. Elezioni in coda, con osservatori già al lavoro mesi prima. Beneficio: più tempo per riparare. Rischio: usura del consenso e normalizzazione dell’eccezione.

Il terzo esito, da evitare, è l’impasse. Doppie istituzioni, scioperi a catena, blocchi e tensioni che tornano in strada. In questo caso l’economia va in stand-by e i più fragili pagano subito. Il modo più efficace per sterilizzare questo scenario è mettere per iscritto una sequenza chiara di passi – giorno, mese, anno – e rispettarla.

Un nodo che viene da lontano: la linea che unisce 2009 e 2025

La vicenda di oggi ha un’ombra lunga. Nel 2009 Rajoelina è salito grazie a un intervento militare che scardinò l’allora presidente Marc Ravalomanana. Nel 2025 lo stesso ecosistema di potere – o i suoi eredi – ha deciso che il ciclo era finito, rovesciando i rapporti di forza. Questo parallelo dice due cose. La prima: le istituzioni non hanno ancora anticorpi robusti contro la politicizzazione delle forze armate. La seconda: le piazze di oggi non sono quelle di allora. Sono più giovani, più connesse, meno ideologiche e più orientate ai servizi. Non chiedono un salvatore, chiedono luce, acqua, trasporti affidabili, tasse chiare e opportunità. Il capitale politico della transizione si misurerà su questi indicatori concreti.

La comunicazione di crisi ha la sua grammatica. Promettere poco e mantenere molto vale più di qualsiasi slogan. Se nei prossimi giorni i disservizi caleranno, gli uffici resteranno aperti e le famiglie vedranno segnali misurabili di normalità, la fiducia salirà. Se invece le promesse resteranno generiche e le interruzioni continueranno, la piazza tornerà a occupare le arterie centrali della capitale. Il Paese non chiede perfezione, chiede serietà: numeri, date, tempi, responsabilità.

Il passaggio chiave che decide il resto

Il Madagascar si trova in una soglia. La giunta ha promesso ordine e ritorno alla democrazia. Il Parlamento ha mostrato di saper reagire, ma deve ora assumersi responsabilità nel definire un percorso verificabile. I movimenti giovanili hanno ottenuto ascolto e portano con sé un’agenda chiara: servizi, dignità, futuro. Gli attori esterni sono pronti a sostenere se vedranno tempi certi e tutele. Il presidente deposto dovrà scegliere se rientrare per trattare una via d’uscita o restare all’estero, rinunciando di fatto a contare nelle prossime mosse.

La prova del nove è semplice e spietata. Accendere la luce quando serve, far scorrere l’acqua ogni giorno, comunicare una data per il voto e mantenerla. Tre cose misurabili, tre promesse possibili. Se queste promesse saranno mantenute, il 14 ottobre potrà diventare una soglia di riscatto. In caso contrario, resterà l’ennesima pagina di una storia che il Paese avrebbe voluto già chiudere. Qui si deciderà il senso del potere preso oggi: se sarà una scorciatoia o un ponte verso una normalità che i malgasci aspettano da troppo tempo.


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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: ANSACorriere della Serala RepubblicaSky TG24RaiNewsAGI.

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