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Perché Ilaria Salis mantiene l’immunità? Ecco cosa è successo

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Perché Ilaria Salis mantiene l'immunità

Immunità a Ilaria Salis confermata: decisione JURI, cosa succede in plenaria e impatti su processo e politica spiegati con chiarezza a tutti.

Ilaria Salis mantiene l’immunità parlamentare perché la Commissione giuridica del Parlamento europeo (JURI) ha bocciato la richiesta dell’Ungheria di revocarla, pronunciandosi il 23 settembre con un voto segreto e un margine risicato. Il passaggio è vincolante nella sostanza per l’iter interno: fino alla decisione finale dell’Aula, attesa a inizio ottobre, la protezione resta pienamente in vigore e Salis non può essere rimessa alla giustizia ungherese. Il segnale politico è netto: la garanzia che tutela l’esercizio del mandato prevale, allo stato, sull’iniziativa delle autorità di Budapest.

La cornice giuridica che sorregge questa decisione è definita dal Protocollo n. 7 sui privilegi e le immunità dell’Unione europea e dalla Regola 9 del Regolamento dell’Europarlamento: la richiesta di revoca passa da JURI, che istruisce e propone, e solo la plenaria può confermare o capovolgere l’indicazione. Fino alla votazione in Aula, l’immunità non si tocca. Non è un lasciapassare personale, ma una salvaguardia funzionale: impedisce che un procedimento penale, soprattutto quando carico di tensione politica, impedisca a un deputato eletto di svolgere il proprio mandato.

La giornata di Bruxelles: il voto che ha congelato la revoca

Nelle stanze della Commissione giuridica, a porte chiuse, la mattinata è scorsa con il passo delle giornate che contano davvero. Sette i fascicoli in calendario, tra cui quello di Ilaria Salis, eletta con Alleanza Verdi e Sinistra e iscritta al gruppo The Left. Il voto, segreto per prassi in questi casi, ha chiuso la partita con un “no” alla revoca che ha spiazzato più di un osservatore per l’esiguità dello scarto e per la frattura dentro il PPE, dove alcuni membri hanno scelto la linea garantista. Risultato: 13 contrari e 12 favorevoli, con conseguente mantenimento dell’immunità e rinvio della parola finale alla plenaria di ottobre. È il classico esito che pesa più del suo valore formale: fotografa gli equilibri politici di questa legislatura e, soprattutto, manda un messaggio istituzionale chiaro sulla tutela del mandato parlamentare.

Sui corridoi del palazzo Paul-Henri Spaak si sono incrociati sguardi eloquenti. C’è chi ha letto la decisione come una difesa dell’indipendenza dell’Eurocamera nel contesto di un caso che, da mesi, è diventato un simbolo nel dibattito europeo sullo stato di diritto in Ungheria. C’è chi, invece, contesta l’idea che l’immunità diventi uno scudo indiscriminato, invocando la necessità di assicurare comunque la collaborazione giudiziaria. Il dato politico, però, resta: la maggioranza in JURI ha ritenuto la revoca non sufficientemente giustificata, ritenendo prevalente la salvaguardia della funzione parlamentare in presenza di seri dubbi sulle garanzie processuali e sul rischio di strumentalizzazione. Il dossier si sposta ora in Aula, dove i gruppi dovranno assumersi la responsabilità di confermare o ribaltare la rotta tracciata.

Che cosa dice la legge: la funzione dell’immunità europea

Per capire davvero perché l’immunità di Ilaria Salis è rimasta in piedi, occorre entrare nelle pieghe delle norme. L’architrave è il Protocollo n. 7 sui privilegi e le immunità dell’Unione europea, che riconosce ai membri del Parlamento europeo un regime di non responsabilità per opinioni espresse e voti, e una immunità personale contro atti che possano limitarne l’attività. È un’immunità funzionale, non un privilegio: protegge l’istituzione evitando che procedimenti penali diventino un modo per condizionare il libero esercizio del mandato.

La Regola 9 del Regolamento dell’Europarlamento disciplina poi il come. Le richieste di revoca, di norma provenienti da autorità giudiziarie nazionali, arrivano alla Presidenza e vengono girate a JURI, che istruisce la pratica. L’interessato può essere sentito, vengono esaminate carte e contesto, quindi la Commissione formula una proposta motivata all’Aula: accogliere o respingere. Gli emendamenti non sono ammessi; si vota a maggioranza semplice. Se la proposta è respinta in Commissione, si considera adottata la decisione contraria ai sensi della stessa Regola 9: qui sta uno dei passaggi tecnici chiave, che spiega perché il “no” di JURI valga come mantenimento dell’immunità in attesa dell’Aula. La sessione plenaria, infine, decide in via definitiva, confermando o capovolgendo la traccia uscita dalla Commissione. Fino a quel momento, la tutela non decade.

Sul piano pratico, questo significa che l’ordinamento europeo chiede una ragione forte e non strumentale per spogliare un eletto della sua protezione. La valutazione non è sull’innocenza o colpevolezza, che appartiene ai giudici, ma sulla compatibilità tra il procedimento e l’esigenza di garantire il lavoro del Parlamento. Si valutano, tra l’altro, il contesto politico, l’eventuale fumus persecutionis (il sospetto che l’azione penale sia mossa da intenti persecutori), l’equilibrio tra cooperazione giudiziaria e autonomia dell’istituzione. In questa cornice, il casellario di Ilaria Salis è finito su un crinale sensibile, dove garanzie processuali e diritti fondamentali pesano quanto, se non più, della mera ricostruzione fattuale degli eventi contestati.

Il dossier ungherese: accuse, condizioni di detenzione, elezione

La vicenda giudiziaria è nota, ma vale la pena ricapitolare i passaggi cruciali. Febbraio 2023, Budapest. Nei giorni del cosiddetto “Giorno dell’Onore”, quando gruppi di estrema destra europei si radunano nella capitale ungherese, la polizia arresta Ilaria Salis nell’ambito di un’indagine su aggressioni a militanti neofascisti. La ricostruzione degli inquirenti colloca l’italiana nell’orbita di presunte azioni violente; la difesa contesta con fermezza. Le immagini della detenuta portata in tribunale con mani e caviglie in catene fanno il giro d’Europa e scatenano proteste in Italia. La diplomazia di Roma prende posizione con fermezza, mentre le condizioni di detenzione denunciate dai legali diventano un caso politico-mediatico, incidendo concretamente sulla percezione della qualità dello Stato di diritto a Budapest.

Il quadro cambia di segno nel giugno 2024, quando Salis viene eletta al Parlamento europeo con AVS. L’elezione fa scattare l’immunità e consente la fine delle misure restrittive disposte in Ungheria: il trasferimento ai domiciliari aveva anticipato il percorso, ma è con l’assunzione del mandato che la spirale si interrompe. Il rilascio dopo l’elezione e il rientro in Italia rappresentano un punto di svolta. È in quel momento che Budapest formalizza la richiesta di revoca all’Eurocamera, attivando la procedura che, da allora, ha attraversato l’istruttoria in Commissione fino al voto del 23 settembre.

Nell’ultimo anno, tra dichiarazioni incrociate e prese di posizione, il caso Salis è diventato un prisma attraverso cui osservare l’andamento dei rapporti tra alcune capitali europee e le istituzioni dell’Unione. Per una parte dell’opinione pubblica e di alcune famiglie politiche, il processo in Ungheria non offrirebbe sufficienti garanzie di equità: si teme un contesto giudiziario esposto a pressioni, con standard di custodia discutibili e un clima polarizzato. Dall’altro lato, non sono mancate le voci che hanno chiesto di non confondere immunità e impunità, sostenendo la necessità di lasciare che i tribunali ungheresi, con tutte le cautele del caso, facciano il loro corso. La decisione di oggi, a saldo di queste spinte, mantiene la protezione, rinviando ogni giudizio nel merito al futuro e al perimetro appropriato.

La politica che entra in aula: equilibri, scarti, messaggi

Il voto di JURI non è solo un tecnicismo: è anche politica nuda, fatta di numeri, alleanze mutevoli e segnali inviati ai rispettivi elettorati. Il margine di un voto, 13 a 12, ha un significato che va oltre la matematica: racconta un’Eurocamera spaccata tra chi privilegia la difesa delle garanzie parlamentari e chi teme l’effetto-precedente di una tutela letta, da alcuni, come una scorciatoia per sottrarsi a un processo. Il dettaglio della frattura nel PPE, con almeno due componenti decisivi sulla linea del “no” alla revoca, dice che il tema tocca corde profonde anche nel centrodestra europeo, diviso tra la vocazione istituzionale a difendere la dignità del Parlamento e l’istinto a non irritare i partner di governo o le basi elettorali più sensibili al tema della sicurezza e della lotta alla violenza politica.

Non meno rilevanti sono le ripercussioni a Roma. Il caso Salis ha alimentato, nell’ultimo anno, un confronto duro tra maggioranza e opposizione. Da un lato, l’area progressista ha visto nella linea uscita da Bruxelles una conferma: la tutela dell’immunità non è uno scudo “di parte”, ma una garanzia di tutti, destinata a valere oggi per un’eurodeputata di sinistra e domani, se necessario, per un parlamentare di qualsiasi altra famiglia politica. Dall’altro, forze come la Lega hanno attaccato la decisione, leggendo nel “no” alla revoca un messaggio sbagliato all’opinione pubblica, quasi un segnale di insensibilità verso le vittime delle aggressioni contestate in Ungheria. In mezzo, una platea ampia di cittadini che chiede chiarezza: capire, cioè, che mantenere l’immunità non assolve nessuno, ma rimette la scelta sulla revoca all’organo deputato, l’Assemblea, e non pregiudica il lavoro dei giudici se e quando l’Aula dovesse decidere diversamente.

Cosa succede adesso: tempi, scenari, conseguenze concrete

Il calendario è definito. Dopo il voto in Commissione, la palla passa alla plenaria di ottobre. L’Aula voterà a maggioranza semplice una decisione che potrà confermare il mantenimento dell’immunità o revocarla su richiesta dell’Ungheria. Nel primo caso, la tutela resterà intatta e i procedimenti in patria di Ilaria Salis rimarranno sospesi nella parte che richiede la sua presenza o la sua consegna: l’immunità non cancella i fascicoli, ma congela ciò che, senza revoca, non può proseguire. Nel secondo caso, qualora l’Aula optasse per la revoca, le autorità ungheresi potrebbero riattivare il processo e richiederne la presenza, fermo restando che il mandato parlamentare non si perde: anche senza immunità, un eurodeputato mantiene il seggio salvo condanne definitive o casi disciplinati da norme specifiche dell’Europarlamento. La decisione di JURI, intanto, orienta: statisticamente pesa, perché segnala il clima politico, ma non vincola la votazione finale.

Va ricordato, inoltre, che la giornata del 23 settembre non era dedicata solo a questo caso: in agenda c’erano più richieste di revoca, compresa quella riguardante l’oppositore ungherese Péter Magyar e la socialista Klára Dobrev. È un contesto che aiuta a capire come l’Europarlamento, nel suo complesso, stia maneggiando con cautela un pacchetto di fascicoli che toccano direttamente gli equilibri istituzionali tra Bruxelles e alcune capitali. La segretezza del voto in Commissione serve proprio a evitare condizionamenti esterni e a proteggere la libertà di giudizio dei membri, ma non impedisce che, fuori, le letture politiche si moltiplichino e spesso semplifichino.

Sul piano operativo, per i cittadini italiani la traduzione concreta è semplice e va detta con chiarezza: Ilaria Salis oggi resta protetta dall’ordinamento europeo. Non rischia di essere riconsegnata alle autorità ungheresi nelle prossime settimane, non rientra in carcere e può svolgere il suo mandato. La fotografia può cambiare solo se la plenaria di ottobre voterà la revoca. Fino a quel momento, ogni scenario alternativo resta nel campo delle ipotesi.

Immunità non è impunità: cosa significa davvero

Immunità parlamentare non coincide con impunità. È necessario ribadirlo perché, specie nei momenti di alta tensione mediatica, la confusione è dietro l’angolo. L’immunità, a livello europeo, è un presidio dell’istituzione e, indirettamente, della volontà popolare espressa dal voto. Protegge la libertà del mandato, non cancella la responsabilità individuale. Se l’Assemblea, valutando i fatti e il contesto, riterrà che non vi sia rischio di strumentalizzazione o che il processo nel Paese richiedente presenti garanzie solide, potrà revocare la tutela e consentire ai giudici nazionali di procedere. Viceversa, se ravvisa segnali di persecuzione politica o di squilibrio tra poteri, difenderà l’immunità.

La giurisprudenza europea recente ha mostrato quanto questo campo sia delicato. Dalle controversie attorno ai dossier Junqueras/Puigdemont fino ai casi meno noti trattati in Commissione, il confine tra tutela del mandato e collaborazione giudiziaria viene tracciato caso per caso, con decisioni motivate, riferite a criteri oggettivi e, non di rado, rilette dai giudici europei quando si tratta di verificare la compatibilità con i Trattati e le libertà fondamentali. Il punto è che l’immunità europea è pensata come strumento di equilibrio: evita che un governo nazionale, specie se in conflitto politico con un eletto, possa alterare la rappresentanza dei cittadini europei usando il processo penale come leva. Il rovescio della medaglia è la responsabilità dell’Europarlamento di non trasformare questo scudo in un paracadute per chi, senza profili politici, sia chiamato a rispondere di reati comuni.

Nel caso di Ilaria Salis, si sommano elementi fattuali (gli scontri contestati a Budapest e un dibattimento che, in teoria, dovrebbe poter andare avanti) e elementi di contesto che hanno pesato — e pesano — nella valutazione: le condizioni di custodia, le immagini delle catene, le pressioni dell’opinione pubblica, la qualità del dibattito politico in Ungheria. È qui che il “no” di JURI acquista significato: non dice che le accuse sono infondate o che non si debba processare chi commette un reato; dice che non ci sono oggi le condizioni per revocare una tutela che, per come è costruita, serve all’istituzione prima che alla persona.

Perché questa decisione parla anche ai lettori italiani

Per molti lettori, il senso pratico di una vicenda così europea passa da due domande concrete: cosa cambia per me e cosa racconta dell’Europa in cui viviamo. La risposta è doppia. Da un lato, questa storia mostra che le istituzioni europee funzionano secondo procedure chiare, con contrappesi pensati per evitare derive: la richiesta di uno Stato membro non viene accolta per automatismo, ma esaminata alla luce di principi comuni, diritti e garanzie. Dall’altro, ricorda che lo Stato di diritto non è un’astrazione da manuale: si misura anche su casi difficili, talvolta polarizzanti, dove le scelte non accontentano tutti ma devono restare leggibili, trasparenti, coerenti con le regole.

Nel contesto interno, l’episodio è uno stress test per la nostra idea di Europa politica. C’è un’Unione che non punta a proteggere un colore politico, ma una funzione, quella parlamentare, affidata a persone scelte dai cittadini. E c’è una dialettica fisiologica tra chi vorrebbe più cooperazione giudiziaria senza eccezioni e chi insiste su una soglia alta per limitare l’immunità, soprattutto quando sospetti fondati di compressione dei diritti entrano nel quadro. La scelta di JURI si colloca qui dentro: non è una vittoria di parte, è un’indicazione su come e quando l’Europarlamento ritiene che sia corretto sciogliere il nodo tra giustizia penale e libertà del mandato.

L’orizzonte delle prossime settimane

All’orizzonte c’è la plenaria. È lì che si consumerà l’atto finale di questo segmento della vicenda. La maggioranza semplice può sembrare un dettaglio tecnico, ma non lo è: in una Camera spaccata, pochi voti possono fare la differenza. Entreranno in gioco la disciplina di gruppo, le sensibilità nazionali, il posizionamento rispetto al governo ungherese e il timore di creare precedenti. La tenuta del “no” uscito dalla Commissione dipenderà dalla capacità dei gruppi che hanno sostenuto il mantenimento della tutela di spiegare ai propri elettori che difendere l’immunità oggi non significa “assolvere” ma salvaguardare le regole. Sul fronte opposto, chi spinge per la revoca cercherà di convincere che collaborare con un ordinamento nazionale — pur controverso — sia il modo giusto per non alimentare sfiducia verso la politica.

Qualunque sia l’esito, un punto resterà fermo: il mandato di Ilaria Salis e la sua libertà personale nel medio periodo dipendono dalla votazione di ottobre e da eventuali sviluppi giudiziari successivi. Fino ad allora, l’immunità fa il suo mestiere: protegge l’eletto e, con lui, la sovranità degli elettori che lo hanno mandato a Strasburgo e Bruxelles a rappresentarli. Qualsiasi decisione diversa dovrà passare per l’Aula, a carte scoperte e responsabilità assunte.

La sostanza del perché

Il cuore della vicenda sta tutto qui. Ilaria Salis mantiene l’immunità perché la Commissione giuridica ha detto no alla revoca, applicando regole chiare che prevedono il mantenimento della tutela fino alla decisione dell’Assemblea. È un no motivato che tiene conto non solo del fascicolo ungherese, ma del contesto, dei diritti fondamentali, della necessità di evitare che un processo diventi leva politica. Il Parlamento europeo si riserva la voce finale, come è giusto, ma intanto manda un segnale: in presenza di dubbi seri sulla tenuta delle garanzie, si sta dalla parte dell’immunità.

È proprio questa la risposta concreta alla domanda che molti si fanno: perché l’immunità regge? Perché così funziona lo Stato di diritto a livello europeo: le prerogative non si toccano senza ragioni stringenti, le procedure contano e la politica — anche quando preme — deve passare dai binari istituzionali. In un tempo in cui tutto corre, la decisione lenta, argomentata, imperfetta ma trasparente, è spesso la più solida.

L’equilibrio tenuto, in attesa del verdetto finale

Il quadro che consegniamo ai lettori, oggi, è quello di un equilibrio tenuto. JURI ha scelto di difendere l’immunità di Ilaria Salis, raffreddando la spinta a un processo immediato in Ungheria e rimettendo alla plenaria il compito di scrivere l’ultima parola. Nel frattempo, le regole europee fanno quello per cui esistono: preservano l’indipendenza del Parlamento, rimandano ogni sforzo punitivo a quando l’istituzione, a maggioranza, riterrà che non sia in gioco la sua stessa libertà.

È il senso più profondo della risposta di oggi: non un favore a una persona, ma una scelta di metodo. E in Europa, quando si parla di diritti e garanzie, il metodo è sostanza.


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