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Perchè i cinesi hanno gli occhi a mandorla: pochi lo sanno

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perchè i cinesi hanno gli occhi a mandorla

Nel linguaggio comune, l’aspetto più riconoscibile degli occhi definiti “a mandorla” è la plica epicantica, una piega cutanea dell’angolo interno dell’occhio che può ridurre la visibilità della rima palpebrale superiore e dare un profilo più allungato allo sguardo. Questo tratto, insieme alla minore o assente piega palpebrale superiore (il cosiddetto “solco” della palpebra), è il risultato congiunto di anatomia e genetica: varia da individuo a individuo, è più frequente in popolazioni dell’Asia orientale e di parte del Sud-est asiatico, ma non è affatto esclusivo né universale tra i cittadini cinesi. Non riguarda la forma del bulbo oculare, identico nelle sue strutture fondamentali, bensì il modo in cui pelle, muscoli e tessuti adiposi si dispongono sopra l’occhio.

La spiegazione, quindi, è concreta: una combinazione di tratti ereditari che influenzano lo sviluppo delle palpebre e dei tessuti periorbitali, in particolare la presenza della plica epicantica e le modalità con cui il muscolo elevatore della palpebra superiore si inserisce e crea (o non crea) il solco palpebrale. L’effetto visivo può essere accentuato da un dorso nasale mediamente più basso e da uno spessore maggiore del tessuto sottocutaneo nella regione periorbitaria. Alcune varianti genetiche, studiate in popolazioni asiatiche e amerindie, contribuiscono alla distribuzione di questi tratti; tra queste la variante EDAR V370A, associata ad altre caratteristiche come capelli più spessi e alcune differenze nella pelle e nelle ghiandole sudoripare. Ma la genetica coinvolta è poligenica, cioè diffusa su molti geni, e interagisce con lo sviluppo embrionale e postnatale. Non è un segno d’identità unico dei cinesi, bensì un pattern morfologico più frequente in certe aree del mondo e presente, con intensità diversa, anche in europei, africani e popolazioni native delle Americhe.

Contesto linguistico e definizione essenziale

In italiano, l’espressione “occhi a mandorla” è radicata nel parlato, ma è un’etichetta approssimativa che sovrappone percezione estetica e caratteristiche anatomo-funzionali. La descrizione corretta in ambito medico parla di plica epicantica (o plica epicantale) e di apertura palpebrale. L’aspetto “allungato” deriva da una maggiore continuità tra pelle palpebrale superiore e inferiore vicino al canto mediale, la zona vicino al naso, che può coprire parzialmente il caruncolo lacrimale. Questo dà all’occhio un profilo più lineare e un solco palpebrale superiore meno marcato o assente, conosciuto colloquialmente come “monolid” o palpebra singola; quando il solco è presente si parla di “double eyelid”, palpebra doppia.

La plica epicantica è frequente nei bambini di tutte le origini, perché nei primi anni di vita il ponte nasale è più basso e la pelle più ridondante; spesso tende a ridursi con la crescita del setto nasale e con la maturazione dei tessuti. In Asia orientale la plica persiste più comunemente anche nell’età adulta, ma la variabilità interna è enorme: la popolazione cinese comprende la maggioranza Han e decine di minoranze etniche con tratti distinti; il solco palpebrale, per esempio, può essere assente, basso o alto a seconda dei gruppi e delle linee familiari. Non esiste un unico “tipo di occhio” cinese, ed è proprio questa diversità a spiegare perché ogni generalizzazione rigida tradisce la realtà.

Anatomia della palpebra e della fessura palpebrale

Per capire la forma dello sguardo bisogna entrare nella meccanica dei tessuti. La palpebra superiore è una lamina mobile formata da cute, muscolo orbicolare, setto orbitario, grasso preaponeurotico, aponeurosi del muscolo elevatore e tarsale. Il solco palpebrale è il punto in cui la fascia del muscolo elevatore si ancora alla pelle; se l’inserzione è alta e netta si vede una piega profonda, se è bassa o diffusa la piega è minima o assente. La plica epicantica è invece una ridondanza cutanea all’angolo interno, indipendente dal solco, che copre in parte il canto mediale e contribuisce all’effetto allungato della fessura palpebrale.

Il ponte nasale e le ossa orbitarie influenzano la percezione del taglio: un dorso più basso rende l’angolo interno meno esposto, mentre un grasso preaponeurotico più ricco “addolcisce” il contorno palpebrale. Anche lo spessore cutaneo e la distribuzione del derma fanno la loro parte. Il risultato visivo che chiamiamo “mandorla” emerge quindi da un insieme di leve anatomiche: non cambia la forma del bulbo oculare, cambiano le strutture di rivestimento. È lo stesso motivo per cui, a parità di visus, due persone possono apparire diversissime nello sguardo: micro-dettagli nella palpebra determinano macro-differenze percepite.

In oftalmologia si misurano parametri come la lunghezza della fessura palpebrale, la ptosi (se presente), la distanza intercanale e l’altezza del margine palpebrale. Nelle popolazioni dell’Asia orientale la fessura tende a essere leggermente più lunga orizzontalmente e meno alta verticalmente, soprattutto in presenza di plica epicantica e di solco poco marcato. Questi parametri rientrano nella normale variabilità umana, non sono indicatori di funzionalità peggiore o migliore, e spiegano la maggior parte delle differenze osservabili senza invocare concetti fuorvianti.

Cosa determina l’“effetto mandorla” nella pratica clinica

Nella pratica, un oculista riconosce quattro elementi che si combinano: plica epicantica presente o assente, altezza del solco palpebrale superiore, quantità di tessuto adiposo preaponeurotico e profilo del dorso nasale. Quando la plica è pronunciata, il solco è basso o assente, il grasso è più abbondante e il dorso è meno prominente, l’occhio appare più allungato. Se una o più di queste condizioni non c’è, lo sguardo appare più “aperto” verticalmente. La salute dell’occhio non dipende da questi assetti: sono configurazioni normali che non riducono il campo visivo, salvo patologie associate non legate all’etnia.

La base genetica: ciò che sappiamo davvero

La forma delle palpebre è un tratto multifattoriale e poligenico. Non esiste un “gene della plica epicantica”, ma un mosaico di varianti che regolano lo sviluppo del volto, dei tessuti molli e delle inserzioni muscolari. EDAR V370A è la variante più citata perché ha effetti pleiotropici documentati: capelli più spessi, maggiore densità delle ghiandole sudoripare, modifiche microscopiche nella pelle e, secondo diversi lavori, influenze sullo sviluppo cranio-facciale. La sua frequenza è elevata in Est Asia e in molte popolazioni native americane, segno di una selezione positiva avvenuta nel Pleistocene superiore e poi propagata con le migrazioni.

Accanto a EDAR, numerose regioni genomiche contribuiscono alla morfologia del volto: aree che regolano cartilagini nasali, osso mascellare, orbite e tessuti perioculari. L’effetto visivo finale è il risultato della somma di questi micro-effetti. È per questo che all’interno della stessa famiglia si osservano gradi diversi di plica e solchi più o meno marcati. Gli studi di associazione su larga scala condotti su decine di migliaia di individui hanno mostrato che la diversità morfologica è continua, non a gradini netti per “razze”, e che le popolazioni si sovrappongono per molti tratti facciali, pur con medie differenti.

Un punto chiave, spesso trascurato, è che geni simili possono produrre fenotipi diversi a seconda del contesto: epigenetica, nutrizione in gravidanza, ormoni e tempi di crescita modulano il modo in cui i piani genetici si traducono in forme. Anche per questo, in Europa nord-orientale e in alcuni gruppi africani, la plica epicantica è presente o ricorrente, seppure con frequenze e intensità differenti. I meccanismi evolutivi alla base della diffusione di certe varianti comprendono selezione naturale, deriva genetica e effetti del fondatore: in popolazioni vissute a lungo in relativa isolazione geografica, alcuni tratti diventano più comuni per pura statistica, oltre che per eventuali vantaggi adattativi.

Perché la genetica non basta a spiegare tutto

La tentazione di ridurre tutto a “un gene, un tratto” non regge alla prova dei dati. Le palpebre sono strutture complesse, il cui sviluppo coinvolge decine di segnali molecolari. La genetica spiega la predisposizione e la distribuzione del tratto, ma l’anatomia spiega il meccanismo. È la combinazione dei due piani, eredità e sviluppo, che produce lo sguardo che vediamo. Questo è anche il motivo per cui la chirurgia palpebrale ottiene risultati molto diversi a parità di procedura: il substrato anatomico di partenza non è uguale per tutti.

Evoluzione, clima e adattamenti ipotizzati

L’ipotesi che i tratti periorbitali diffusi in Asia orientale si siano rafforzati in ambienti freddi e ventosi è stata proposta perché tessuti palpebrali più compatti e pliche più pronunciate potrebbero ridurre evaporazione lacrimale, ingresso di polveri e irritazioni da vento. Le steppe e le zone subartiche dell’Eurasia, attraversate da antenati delle popolazioni odierne, avrebbero fornito il contesto. Questa spiegazione è plausibile ma non esclusiva. La stessa variante EDAR V370A sembra aver avuto vantaggi multipli, non solo legati alla palpebra: capelli più spessi migliorano l’isolamento termico, ghiandole sudoripare più dense facilitano la termoregolazione, e modifiche cutanee possono aver influenzato la resistenza della pelle.

È importante sottolineare che, in evoluzione umana, molti tratti sono sottoprodotti di altri cambiamenti selezionati. Un naso mediamente più piatto e un ponte nasale meno prominente, ad esempio, possono aver inciso indirettamente sull’aspetto del canto mediale e del solco palpebrale, senza che la plica epicantica fosse, in sé, l’oggetto della selezione. Inoltre, deriva genetica e collo di bottiglia durante migrazioni antiche possono amplificare la presenza di varianti inizialmente rare.

La prudenza è d’obbligo: non tutte le ipotesi adattative sono verificabili in modo diretto. Quello che i dati consentono di affermare è che la frequenza della plica in Asia orientale è coerente con combinazioni di selezione e storia demografica, e che la funzione fisiologica dell’occhio resta eccellente in ogni configurazione palpebrale normale. L’adattamento, se c’è stato, si è mosso sul piano di micro-vantaggi cumulativi in ambienti specifici, non di cambiamenti drammatici della vista.

Diversità reale: Cina, Asia e oltre

Parlare di “occhi cinesi” come categoria unica ignora un continente di differenze. In Cina convivono società di pianura e di altipiano, coste umide e deserti continentali. La maggioranza Han è internamente eterogenea: nelle regioni costiere meridionali la palpebra doppia è relativamente più frequente rispetto ad aree nord-orientali dove la plica epicantica può essere più marcata. Le minoranze etniche — dagli Uyghur dello Xinjiang ai Tibetani dell’altopiano, dai Zhuang del Guangxi ai Mongoli della Mongolia Interna — presentano spettri morfologici diversi per storia, matrimoni misti e isolamento geografico.

Il tratto “a mandorla” si riscontra con alte frequenze anche in Corea e Giappone, con differenze regionali documentate nei tassi di palpebra doppia. In Sud-est asiatico, in popoli come Thai, Vietnamiti, Filippini e Indonesiani, la plica è presente in gradi variabili, spesso combinata con tratti influenzati da mescolanze antiche con popolazioni austronesiane e austroasiatiche. Nelle Americhe, molte comunità native mostrano pattern perioculari simili per condivisione di linee ancestrali con l’Asia nord-orientale. Anche in Europa e in Africa si osservano pliche epicantiche in percentuali non trascurabili, con una distribuzione a macchia di leopardo che ricorda la variabilità globale dell’umanità.

Questa geografia del tratto ha una conseguenza pratica: non si può dedurre con certezza l’origine di una persona osservando la forma degli occhi. La fisognomica come pretesa scienza d’identificazione è inattendibile. Il giornalismo di qualità, come la buona divulgazione, evita scorciatoie e riporta la complessità: la forma dello sguardo non è un passaporto. È un segno ereditario che racconta, al massimo, la storia antica di un ceppo, intrecciata a mille altre storie.

Un tratto, molte espressioni: esempi quotidiani

Nella vita di tutti i giorni, la stessa persona può apparire più o meno “a mandorla” a seconda di illuminazione, espressione e posizione delle sopracciglia. Ridere o strizzare gli occhi attiva il muscolo orbicolare e riduce l’apertura verticale; un make-up che enfatizza il lateral canthus allunga otticamente la fessura. Anche un modesto edema da stanchezza o allergia può accentuare il grasso preaponeurotico e smorzare il solco. Questi aspetti dinamici ricordano che ciò che chiamiamo “forma” è un equilibrio tra anatomia e mimica.

Medicina, vista e scelte estetiche contemporanee

Dal punto di vista medico, la plica epicantica è fisiologica. Non richiede trattamenti e non compromette la vista. L’oftalmologia interviene quando vi sono patologie associate — ad esempio ptosi palpebrale significativa, entropion o epiblefaron — condizioni che possono irritare la cornea o ridurre il campo visivo; sono problemi distinti dalla semplice presenza di plica e si trattano con procedure mirate. In pediatria, la plica marcata può simulare uno strabismo convergente (“pseudostrabismo”): in questi casi la valutazione ortottica chiarisce rapidamente la situazione, evitando ansie inutili.

Sul piano estetico, in diverse società asiatiche la blefaroplastica per creare o accentuare il solco — spesso chiamata “double-eyelid surgery” — è una procedura comune. Non nasce da una presunta “correzione”, ma dall’adeguamento a canoni locali in cui un solco più definito è percepito come segno di vitalità o ampiezza dello sguardo. In parallelo, molte persone con palpebra doppia cercano un aspetto più morbido e lineare; l’idea di bellezza non è unidirezionale. La chirurgia responsabile valuta proporzioni, spessore cutaneo, inserzione dell’elevatore e quantità di grasso per evitare eccessi e risultati innaturali. La decisione è personale e, quando avviene, va contestualizzata come scelta di stile, non come giudizio di valore su un tratto normale.

Nel mondo delle lenti a contatto e degli occhiali, la forma della palpebra non pone limiti. Gli ottici lavorano su ponti e naselli per adattare la montatura a un dorso nasale più basso senza scivolamenti; l’industria ha sviluppato naselli regolabili e montature con geometrie dedicate proprio per massimizzare comfort e stabilità. In campo tricotecnico e dermatologico, la già citata variante EDAR si accompagna a capelli di calibro maggiore e a pelle con densità ghiandolare differente, elementi che hanno guidato nel tempo lo sviluppo di prodotti specifici per capelli e skincare in Asia orientale, un settore oggi globale.

Educazione visiva e comunicazione rispettosa

In redazione come a scuola, un punto educativo fa la differenza: parlare di “plica epicantica” e di anatomia palpebrale aiuta a spostare il focus dall’etichetta all’osservazione corretta. Il lessico conta perché indirizza lo sguardo. Evitare stereotipi e semplificazioni etniche è un dovere civico e professionale: significa riconoscere che le differenze sono normali e che la normalità ha molte facce.

Confronto con altri tratti del volto: ciò che cambia, ciò che resta

La storia della variabilità umana non si esaurisce con gli occhi. Pigmentazione cutanea, forma del naso, sporgenza zigomatica e calibro dei capelli seguono mappe geografiche diverse, incrociate tra loro. In questo reticolo, la plica epicantica è solo uno dei nodi. La sua maggiore frequenza in Asia orientale racconta migrazioni antiche e ambienti naturali specifici; la sua presenza in altri continenti ricorda che la storia umana è fatta di ponti. Oggi, nell’epoca della mobilità e dei matrimoni misti, la mescolanza rende i confini tra tratti medi ancora più sfumati.

La ricerca genetica sta progredendo verso mappe più fini della morfologia cranio-facciale. Tuttavia, gli stessi scienziati insistono su un punto: predire con precisione la forma delle palpebre da un genoma individuale è — e resterà a lungo — impraticabile. Troppi geni, effetti piccoli, interazioni complesse con l’ambiente e lo sviluppo. Questo limite non è una debolezza della scienza, ma la naturale conseguenza della complessità biologica. Il giornalismo che rispetta i fatti deve trasmettere questa complessità con chiarezza, senza trasformarla in confusione.

Una nota di metodo: come si costruisce un’informazione solida

Quando si parla di tratti fisici e gruppi umani, l’accuratezza non è un dettaglio. L’approccio serio parte dalle definizioni mediche, passa per le verifiche anatomiche e genetiche e arriva alle implicazioni sociali senza indulgere a facili moralismi. Usare termini corretti, spiegare “chi” è coinvolto (popolazioni e individui), “che cosa” si osserva (plica e solco), “quando” e “dove” si sono diffusi certi tratti (storia evolutiva e migrazioni), “perché” li vediamo più spesso in alcuni contesti (genetica, selezione, deriva): è la regola delle 5 W applicata a un tema del corpo, senza spettacolarizzare.

Atlante minimo della plica: dati utili per orientarsi

Nel bambino piccolo, a prescindere dall’origine, è comune notare pliche epicantiche evidenti. Con la crescita del ponte nasale, tra i 4 e i 7 anni, la plica tende a attenuarsi; in molti soggetti di origine europea scompare del tutto, in una parte dei soggetti di origine est-asiatica persiste. Nel giovane adulto la palpebra singola è diffusa in Asia orientale, ma la palpebra doppia è anch’essa molto presente; non esiste un unico standard. Nel corso della vita, l’invecchiamento può appesantire la palpebra superiore, accentuando o coprendo il solco a prescindere dall’etnia; fenomeni come la dermatocalasi sono universali e si trattano, quando necessario, con blefaroplastica funzionale.

In ambito legale e documentale, ad esempio nelle ricerche di persone o nei ritratti identikit, la forma delle palpebre è solo uno dei parametri. La fotografia forense utilizza misure riproducibili, non categorie vaghe. Anche in riconoscimento facciale automatico, gli algoritmi moderni si basano su tratti multipli e pattern dinamici, non su una singola caratteristica come la plica; e le migliori pratiche raccomandano valutazioni contestuali per evitare bias.

Prendersi cura degli occhi: ciò che conta davvero

Indipendentemente dalla forma, igiene palpebrale, lubrificazione quando necessaria, controlli oculistici periodici e protezione dai raggi UV sono le misure che fanno la differenza. Chi pratica sport in ambienti ventosi o desertici può scegliere occhiali avvolgenti per ridurre irritazioni e secchezza. In caso di sintomi persistenti — bruciore, arrossamento, fotofobia — il riferimento è l’oculista, non l’auto-diagnosi. La forma “a mandorla” non predispone a malattie specifiche; le patologie comuni dell’occhio colpiscono tutti e si trattano con gli stessi protocolli.

Sguardi, parole, persone: un quadro che non si semplifica

L’abitudine a usare etichette visive nasce dal bisogno di riconoscere schemi. È una scorciatoia mentale che, se non corretta, diventa stereotipo. La cronaca e l’informazione hanno il compito di rallentare questa scorciatoia: spiegare che dietro l’espressione “occhi a mandorla” c’è una struttura anatomica precisa, una storia genetica tracciabile e una variabilità individuale che sconsiglia ogni giudizio. La diversità dei volti arricchisce il racconto collettivo e, quando è compresa nei suoi termini reali, disinnesca la caricatura.

Un ultimo appunto semantico aiuta a lungo termine. Preferire i termini tecnici quando serve — plica epicantica, solco palpebrale, apertura palpebrale — non è pedanteria; è precisione. E la precisione tutela le persone. Nel giornale, in classe, al lavoro, le parole possono ridurre o amplificare distanze. Usarle bene significa descrivere, non definire gli altri.

I fatti che restano nello sguardo

Il tratto chiamato “a mandorla” non è un mistero né un marchio di appartenenza esclusivo. È l’esito naturale di come pelle, muscoli e tessuti si organizzano attorno all’occhio, sotto la guida di molte varianti genetiche distribuite in modo non uniforme nel globo. La plica epicantica e il solco palpebrale spiegano la gran parte di ciò che vediamo, insieme al profilo del dorso nasale e allo spessore dei tessuti. La maggiore frequenza del tratto in Asia orientale racconta migrazioni antiche e adattamenti plausibili, ma non autorizza a ridurre la complessità di un miliardo e mezzo di persone a una sola immagine. Gli occhi non cambiano funzione con la forma delle palpebre: cambia la cornice, non il quadro.

In un paese come l’Italia, abituato da secoli a incontri e mescolanze, il modo più corretto e informato di guardare lo sguardo altrui è riconoscere la normalità delle differenze. Chiamare le cose con il loro nome, capire come sono fatte e perché le vediamo più spesso in certi luoghi, è il passo decisivo per un’informazione seria, utile e rispettosa. Perché, al netto delle parole, la verità resta negli occhi: strutture comuni a tutti, diverse nei dettagli, ugualmente umane.


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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: TreccaniLe ScienzeFocusOspedale Bambino GesùIAPB Italia.

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