Domande da fare
Grazie a Gaza la sinistra europea ritrova unità e (forse) voti

La guerra a Gaza ha funzionato da acceleratore politico per la sinistra europea, spingendo partiti socialdemocratici, verdi e sinistre radicali a ricompattarsi su una piattaforma riconoscibile: cessate il fuoco immediato, corridoi umanitari stabili, riconoscimento dello Stato di Palestina, tutela del diritto internazionale e responsabilità per i crimini di guerra. È una grammatica comune che, dai palazzi di Bruxelles alle piazze delle capitali, ha ridefinito la conversazione pubblica e dato alla sinistra un profilo netto dopo anni di ambiguità su sicurezza, migrazioni e politica estera. Il risultato, secondo indizi convergenti e segnali elettorali locali, è un recupero di credibilità e, in alcuni contesti, anche di consenso, soprattutto tra i giovani e l’elettorato urbano progressista.
Il “quando” di questo riassetto è chiaro: dall’autunno 2023 in avanti, mano a mano che la crisi si è allargata, l’agenda progressista si è appuntata su quattro verbi – proteggere, negoziare, riconoscere, ricostruire – e ha trovato sponde istituzionali europee nella difesa del diritto internazionale umanitario. Il “dove” è l’intero perimetro dell’Unione: nei parlamenti nazionali e in quello europeo, nelle amministrazioni locali, nelle reti associative. Il “chi” è una costellazione di attori che vanno dai partiti socialisti ai verdi, fino ai movimenti pacifisti e alle comunità civiche; il “perché” è la domanda di coerenza e compassione che l’opinione pubblica ha avanzato di fronte al crescendo di vittime civili e alla distruzione infrastrutturale nella Striscia. E il “cosa” è un posizionamento politico che, pur con differenze di tono e di tattica, consente alla sinistra di distinguersi dai conservatori – spesso più allineati a una lettura securitaria del conflitto – e dai liberali, talvolta paralizzati tra realpolitik e vincoli di alleanze.
Una cornice comune: pace, diritto e riconoscimento
Il primo effetto del conflitto è stato semantico: ha restituito alla sinistra un vocabolario di principi che sembrava logorato. Parlare di cessate il fuoco non è più un riflesso identitario ma un obiettivo negoziale che connette valori e strumenti, dal rafforzamento del coordinamento umanitario alla protezione dei civili, dalla liberazione degli ostaggi alla prevenzione dell’escalation regionale. La difesa del diritto internazionale si è tradotta in proposte concrete su inchieste indipendenti, tracciabilità degli armamenti, controllo sulle esportazioni dual use e sostegno alle agenzie delle Nazioni Unite impegnate in prima linea. Il riconoscimento dello Stato di Palestina è divenuto per molti governi e forze progressiste un tassello di politica estera capace di orientare l’Europa verso una strategia “due popoli, due Stati” rilanciata con strumenti e garanzie più solide rispetto al passato.
Questa cornice ha effetti politici specifici. Rimette la sinistra al centro dei grandi dossier internazionali, sottraendola all’accusa di essere interessata solo a redistribuzione e welfare. Le consente inoltre di parlare a segmenti sociali che negli ultimi anni l’avevano abbandonata: i giovani istruiti, i professionisti delle città globali, il mondo della cultura, ampi tratti del sindacato e dell’associazionismo. La pietra angolare è la coerenza: la stessa sinistra che chiede responsabilità a Mosca per l’aggressione all’Ucraina rivendica standard analoghi in Medio Oriente, evitando il doppio standard che spesso le viene rinfacciato. Sul piano comunicativo, la chiarezza dei messaggi – diritti umani, aiuti, pace negoziata – ha consentito una contro-narrazione alle polarizzazioni social, che riducono il conflitto a slogan e “tifoserie”.
Dalle piazze alle urne: una mobilitazione che ricuce
In ogni ciclo politico europeo, poche questioni riescono a ricucire il rapporto tra istituzioni e società civile. Gaza è una di queste. In decine di città europee, le manifestazioni per la pace hanno mischiato generazioni e appartenenze, riportando in strada iscritti e simpatizzanti che si erano allontanati dalla militanza. Per i partiti, questo ha significato rimettere in moto strutture territoriali e reti di attivismo dormienti, riallineando vertici e base attorno a obiettivi misurabili: pressare i governi per corridoi umanitari, votare mozioni nei parlamenti, sostenere organizzazioni impegnate nei soccorsi, avviare gemellaggi solidali con municipalità colpite.
Il riflesso elettorale non è automatico, ma tracce misurabili emergono in diversi Paesi dove la sinistra ha fatto della pace una bandiera riconoscibile: maggiore partecipazione giovanile in città universitarie, ritorno al voto di elettori intermittenti, consolidamento nelle periferie dinamiche che combinano multiculturalità e nuova manifattura. Laddove la narrazione è stata accompagnata da proposte amministrative – politiche abitative, servizi sociali, sostegno psicologico per famiglie coinvolte indirettamente dal conflitto – si sono visti segnali di fedeltà elettorale più robusta rispetto a campagne incentrate solo su identità e valori.
L’effetto più importante, tuttavia, è organizzativo. Il conflitto ha spinto le sinistre a coordinarsi tra famiglie politiche europee. Socialisti, verdi e sinistre della GUE hanno trovato tavoli comuni su risoluzioni, emendamenti e iniziative parlamentari. Il perimetro è pragmatico: non annulla le differenze su bilancio Ue, politiche energetiche o difesa comune, ma produce coalizioni tematiche che poi si riverberano su altri dossier, dall’asilo alla cooperazione allo sviluppo. In termini di identità, significa tornare a parlare di Europa come attore di pace senza scivolare nell’astrazione, anzi calando questa ambizione in strumenti giuridici e di policy.
I casi nazionali: differenze di accento, convergenza di rotta
In Italia, la sinistra ha ritrovato un terreno di iniziativa laddove per anni aveva rincorso l’agenda avversaria. La richiesta di un cessate il fuoco verificabile, la tutela delle ONG umanitarie e il sostegno all’UNRWA hanno fatto da collante tra Partito Democratico, forze ecologiste e sinistra civica, con il mondo sindacale in prima fila. L’effetto città è stato visibile: consigli comunali e metropolitani hanno approvato mozioni e atti di sostegno, mentre reti di volontariato e cooperative hanno costruito progetti d’accoglienza sanitaria per i feriti. Questo attivismo ha restituito fiducia a elettori che chiedono alla sinistra non solo dichiarazioni ma servizio pubblico: fare, non solo dire.
In Spagna, la traiettoria è stata ancora più marcata. L’orientamento esplicito verso il riconoscimento dello Stato di Palestina, accompagnato da un lavoro di diplomazia europea, ha consegnato alla sinistra di governo una leadership reputazionale in Ue: non un gesto simbolico, ma l’inserimento del riconoscimento nella cassetta degli attrezzi per riaprire il negoziato a due Stati. L’elettorato progressista, mobilitato dalle grandi manifestazioni, ha percepito coerenza tra parole e atti esecutivi, con ricadute sulla capacità di agenda setting anche in ambito europeo.
In Francia, pur in un quadro politico polarizzato, la sinistra ha trovato nell’istanza pacifista una leva per unire famiglie divise. L’attenzione alla lotta all’antisemitismo – distinta da una critica severa alla condotta del governo israeliano – ha permesso di non cedere il campo alla destra su sicurezza e ordine pubblico, e di parlare a un elettorato laico che rifiuta ogni forma di odio. Qui la chiave comunicativa è stata l’universalismo repubblicano innestato su una richiesta di tregua, che ha ricomposto fratture interne tra culture politiche diverse.
In Germania, i verdi hanno coniugato l’impegno umanitario con la responsabilità governativa, difendendo la cornice del diritto internazionale e sostenendo, in parallelo, la necessità di liberare gli ostaggi e di isolare i gruppi armati. I socialdemocratici hanno mantenuto un profilo istituzionale, insistendo su mediazione e assistenza. Le tensioni non sono mancate, ma il risultato è una posizione europea credibile che, su Gaza, riavvicina elettori urbani e ceti medi attenti ai diritti.
Nel Regno Unito, dove le dinamiche istituzionali sono diverse ma influenti sul continente, la questione Gaza ha generato dibattiti intensi dentro la sinistra su linguaggi, simboli e linee rosse. Il punto di atterraggio, in termini di percezione pubblica, è una piattaforma che tiene insieme condanna del terrorismo, richiesta di tregua e centralità della diplomazia multilaterale. È un equilibrio che parla a una società multiculturale e a collegi urbani contesi, con il rischio di frizioni interne ma anche con un potenziale di allargamento del perimetro elettorale.
Bruxelles come sismografo: cosa è cambiato nel metodo europeo
Il Parlamento europeo è stato un sismografo di questo riassetto. La sinistra, nei suoi gruppi, ha costruito blocchi negoziali con i verdi e, in casi selezionati, con i liberali più sensibili alla legalità internazionale, per far passare risoluzioni che legano il sostegno umanitario a impegni vincolanti sul rispetto del diritto bellico. La Commissione ha trovato nella pressione parlamentare e dei governi più esposti (Spagna e Paesi nordici, tra gli altri) un incentivo a irrigidire i controlli su esportazioni sensibili e a facilitare i canali per gli aiuti. Questo lavoro “di officina” è la parte meno visibile ma più concreta del cambio di passo: produce linee guida, allegati tecnici, condizionalità che poi governano fondi e scelte operative.
È cambiato anche il linguaggio con cui l’Europa racconta se stessa quando parla di guerra e pace. Negli anni scorsi, la retorica oscillava tra moralismo e realismo. Sul dossier Gaza, la sinistra ha spinto per una terza via: realismo giuridico. Non un utopismo privo di strumenti, né un calcolo di puro interesse; piuttosto l’idea che la forza del diritto – investigazioni indipendenti, tracciabilità degli aiuti, standard di protezione dei civili – sia anche interesse europeo perché stabilizza vicinati e riduce ondate migratorie e radicalizzazione. Parlare così, in modo concreto e misurabile, ha migliorato la percezione della sinistra come forza capace di governare l’interdipendenza.
Sul piano delle alleanze, il tema Gaza ha offerto un banco di prova per possibili coalizioni tematiche nella nuova legislatura europea: socialisti, verdi e una parte dei liberali potrebbero ritrovarsi su aiuto umanitario, ricostruzione postbellica e diplomazia di quartiere nel Mediterraneo. Non è un fronte compatto su tutto – difesa comune, energia, regole fiscali restano divisivi – ma rappresenta una piattaforma operativa che consente alla sinistra di negoziare con autorevolezza anche sugli altri dossier.
Consenso e rischio: dove la sinistra vince (e dove può inciampare)
Il recupero di unità non equivale automaticamente a un’ondata rossa. Ci sono almeno tre rischi. Il primo è l’accusa di ambiguità: quando il messaggio non tiene insieme tutela dei civili e sicurezza di israeliani e palestinesi, il campo conservatore accusa la sinistra di parzialità. Evitare lo scoglio richiede parole chiare su ostaggi, condanna del terrorismo e rifiuto di ogni antisemitismo e islamofobia, oltre a una comunicazione empatica con le comunità direttamente colpite in Europa.
Il secondo rischio è la sovrapposizione di cause. Gaza mobilita, ma l’elettorato decide ancora su salari, costo della vita, sanità e casa. Per trasformare calore civico in consenso, la sinistra deve “portare a casa” risultati domestici: più risorse per i servizi, politiche abitative più rapide, sostegni mirati alle famiglie. La credibilità estera funziona da moltiplicatore solo se agganciata a politiche sociali tangibili.
Il terzo rischio è la polarizzazione social, dove le sfumature scompaiono e gli avversari alimentano culture del sospetto. Qui la risposta non è più solo comunicativa: servono infrastrutture digitali e reti di fact-checking in grado di proteggere amministratori e attivisti da campagne tossiche, mantenendo il dibattito su dati verificabili e non su insinuazioni.
Sul versante delle opportunità, la sinistra ha in mano tre carte. La prima è il credito morale guadagnato quando le parole coincidono con atti concreti: sostegno finanziario ai corridoi umanitari, pressione per inchieste indipendenti, iniziative di cooperazione decentrata tra città europee e comuni palestinesi. La seconda è la competenza amministrativa: trasformare la mobilitazione in politiche locali – housing, welfare, educazione interculturale – restituisce alla sinistra la sua immagine storica di “partito del fare”. La terza è l’Europa come scala naturale: la cornice Ue permette di moltiplicare l’effetto delle politiche, dal controllo export alla logistica degli aiuti, fino alla ricostruzione.
L’Italia nella traiettoria europea
Per il lettore italiano, il punto chiave è capire cosa cambia a casa nostra. Gaza ha riportato alla sinistra un tema identitario che non divide il suo elettorato principale e che, anzi, offre terreno di dialogo con mondi civili spesso tiepidi verso la politica: terzo settore, università, professioni sociali. L’aver costruito una posizione robusta e coerente su cessate il fuoco, assistenza umanitaria e riconoscimento dei diritti palestinesi – insieme alla ferma condanna di ogni antisemitismo – ha rinsaldato alleanze urbane con forze ecologiste e civiche. Questo blocco sociale, quando si percepisce ascoltato e rappresentato, è capace di trainare campagne elettorali, soprattutto nelle amministrative e nelle regioni dove la qualità dei servizi e la reputazione degli amministratori contano più delle etichette.
Sul piano parlamentare, la sinistra italiana ha usato il tema Gaza per marcare una differenza di metodo: chiedere controlli sulle esportazioni sensibili, incalzare il governo su aiuti e fondi, sostenere le agenzie umanitarie sul campo, non per prendere posizione contro qualcuno in Europa, ma per rafforzare il ruolo dell’Italia nella costruzione di una linea europea di pace. È un approccio che parla al Paese produttivo – attento alla stabilità nel Mediterraneo – e a quello solidale – desideroso di vedere l’Italia in prima fila nella diplomazia umanitaria.
La sfida ora è tenere insieme questo profilo internazionale con una piattaforma sociale all’altezza: salari, sanità territoriale, scuola, transizione energetica che non penalizzi i ceti medi-bassi. L’elettore riconosce l’autorevolezza quando vede coerenza trasversale tra esteri e interni. Il messaggio che può fare la differenza è semplice e concreto: pace, diritti e lavoro come perno di una politica che non si limita a commentare l’attualità, ma aggiusta la vita quotidiana.
Dopo la guerra: ricostruzione, garanzie e diplomazia di quartiere
Guardare oltre l’emergenza significa parlare di ricostruzione. Qui la sinistra europea ha l’occasione di proporre un piano multilivello: fondi Ue vincolati a trasparenza e standard anticorruzione, coinvolgimento di municipalità e società civile in progetti di housing e sanità, partenariati con università europee per formazione tecnica e ricostruzione delle infrastrutture civili. È la traduzione pratica di una parola abusata – pace – in un’agenda capace di generare lavoro dignitoso e inclusione.
La seconda gamba è la sicurezza. La sinistra riconosce che nessuna ricostruzione è possibile senza garanzie credibili per israeliani e palestinesi. Significa sostenere meccanismi di monitoraggio internazionale, promuovere la riforma delle forze di sicurezza locali con standard di diritti umani, spingere per accordi che separino i civili dai gruppi armati. In Europa, questo si traduce in coordinamento tra Stati membri su intelligence e contrasto al finanziamento del terrorismo, ma anche in diplomazia di quartiere: coinvolgere l’Egitto, la Giordania e altri attori regionali con incentivi concreti legati a commercio, energia e infrastrutture.
Infine, c’è l’impalcatura giuridica. Sostenere corti e meccanismi d’inchiesta non per spirito punitivo, ma per stabilizzare la pace. La responsabilità individuale per violazioni gravi non è alternativa alla riconciliazione; ne è la condizione. La sinistra europea, se vuole capitalizzare politicamente, deve continuare a dirlo con fermezza e misura, senza cedere alla retorica dell’eccezione che tutto giustifica e tutto trascina nell’impunità.
Un vantaggio competitivo diverso: credibilità e alleanze sociali
Se Gaza ha restituito unità alla sinistra europea, è perché l’ha costretta a scegliere: abbandonare il terreno scivoloso dei calcoli comunicativi e ripartire da un nocciolo etico traducibile in politiche pubbliche. Questa scelta costruisce un vantaggio competitivo particolare. Non fa vincere da sola le elezioni – e non sempre le fa vincere – ma ridà alla sinistra la possibilità di dettare il ritmo su questioni che intrecciano esteri e interni, diritti e lavoro, sicurezza e libertà.
Il vantaggio si misura in tre relazioni. Con l’elettore: la percezione che la sinistra non usi la tragedia per guadagno simbolico, ma per cambiare procedure e allocazioni di bilancio. Con gli alleati europei: la capacità di costruire maggioranze a geometria variabile su aiuti, ricostruzione, controllo export, invece di predicare nel deserto. Con la società civile: il rilancio di un patto in cui i partiti sono cerniera tra energia civica e stato sociale.
Dove può rompersi questo equilibrio? Nella testualità dei prossimi mesi. Ogni parola va accompagnata da atti: finanziamenti realmente erogati, corridoi umanitari realmente funzionanti, strumenti legali realmente applicati. La sinistra non deve farsi intrappolare nel frame di chi le chiede una scelta tribale tra appartenenze. Deve insistere su regole e vite, su civili e ostaggi, su ricostruzione e garanzie. È lì che si gioca l’autorevolezza che può trasformare l’unità ritrovata in consenso sostenibile.
Un nuovo baricentro per l’Europa progressista
L’Europa è a un bivio geopolitico in cui la guerra è tornata a essere fattore di identità. Gaza ha riordinato assi e priorità della sinistra: una politica estera che non rinuncia al diritto, una politica interna che riconosce che le guerre altrui bussano alle nostre scuole, ai nostri ospedali, alle nostre bollette. L’unità non è un dato acquisito, ma un processo: si alimenta se i partiti sapranno incrociare la domanda di protezione sociale con quella di sicurezza umana, la voglia di pace con la necessità di garanzie, la solidarietà con la rigenerazione economica.
La lezione di questi mesi è che, davanti a una tragedia, la sinistra europea può smettere di inseguire e tornare a guidare. Lo fa quando mette insieme empatia e tecnica, coraggio politico e disciplina istituzionale. Se questa postura diventerà abitudine di governo e non solo risposta all’emergenza, allora sì: grazie a Gaza la sinistra non avrà soltanto ritrovato unità, ma anche – finalmente – voti.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: ANSA, Il Post, RaiNews, La Repubblica, Avvenire, Internazionale.

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