Cosa...?
Cosa ha detto Enzo Iacchetti dopo la lite in tv con Mizrahi?

Enzo Iacchetti resta sulla sua: dopo la lite tv con Mizrahi non cancella una parola, definisce il dibattito sulla guerra una questione che va affrontata senza filtri.
Nei minuti successivi allo scontro andato in onda nella puntata di È sempre Cartabianca del 16 settembre 2025 su Rete 4, Enzo Iacchetti ha pubblicato un video sui social in cui ha chiarito senza esitazioni la sua posizione: non si scusa, non ritratta e rifarebbe tutto. Nel messaggio, comparso il 17 settembre, il conduttore di lungo corso ha definito Eyal Mizrahi un «provocatore, bugiardo, ignorante», spiegando di aver reagito in diretta a quello che considera un tentativo di minimizzare il tema delle vittime civili a Gaza. Ha ribadito che, se tornasse oggi in quello studio, ripeterebbe parola per parola le stesse frasi, «dalla prima all’ultima».
Le sue dichiarazioni post-scontro hanno avuto un tono netto e identitario. Iacchetti ha ringraziato per la solidarietà ricevuta e ha precisato di non voler raddrizzare il tiro. Ha parlato di una reazione istintiva davanti a parole che percepisce come una negazione del dolore dei civili, sottolineando che non accetterà etichette come «fascista» e che anzi rivendica un linguaggio aspro perché, a suo dire, l’argomento – la guerra a Gaza e il peso dell’impatto sui bambini – non tollera formule morbide. La sua è una presa di posizione a freddo, ma senza smussature: nessun dietrofront, nessun «se ho offeso», nessun tentativo di riscrivere la sequenza.
La presa di posizione a freddo: tono, contenuti, destinatari
Il giorno dopo la diretta, il messaggio di Iacchetti si muove su due piani paralleli. Da un lato, la cronaca: mette in fila l’accaduto, dalla scintilla in studio all’interruzione per pubblicità. Dall’altro, il giudizio: spiega perché ha alzato i toni, perché non intende moderarli ex post e perché considera la controparte una figura irricevibile nel confronto televisivo. Il lessico che utilizza – «impossibile», «provocatore», «bugiardo», «ignorante» – è il cuore della notizia, perché non lascia spiragli a successive conciliazioni. È un linguaggio che non attenua ma conferma, un linguaggio che si carica di intenzione politica nel momento in cui lega le sue parole al tema dei bambini uccisi durante i bombardamenti.
In questo frame, Iacchetti si rivolge a tre platee. Alla conduttrice che si è trovata a gestire lo scontro, segnala che non si considera un ospite fuori controllo ma un testimone indignato; al suo pubblico storico, ricorda che non tradisce un patto di credibilità costruito negli anni, e che proprio per questo preferisce un eccesso di chiarezza a un difetto di sincerità; all’arena social, mostra di saperci stare, misurando tempi e parole del suo video come un comunicatore consumato. Ringrazia, dà riscontro, restituisce attenzione a chi lo sostiene. Il sottotesto è leggibile: questo non è un incidente da archiviare ma un segno identitario che considera coerente con la sua coscienza.
Il quando e il dove contano per capire la temperatura della sua replica. Accade il giorno dopo di una diretta in cui la conduttrice Bianca Berlinguer ha dovuto interrompere il dibattito per lo scambio di insulti e la minaccia di scendere dai posti per un confronto fisico. Accade sui social, con un video breve ma calibrato, nel luogo dove il caso è esploso in clip, ritagli e rilanci. La scelta del canale non è casuale: è lì che il ciclo dell’attenzione si misura in ore, e lì che un personaggio pubblico può riprendere il controllo della narrazione.
La scintilla in studio: come e perché il confronto è deragliato
La sequenza televisiva che ha portato alla lite è lineare e, al tempo stesso, bruciante. In studio, Eyal Mizrahi, presidente della Federazione Amici di Israele, contesta numeri e fonti sulle vittime a Gaza, rivendica il diritto di Israele alla difesa e accusa la controparte di non conoscere il contesto militare. Iacchetti replica con veemenza, porta al centro la proporzionalità della risposta armata e l’impatto sui civili, insiste sulla contabilità dei bambini e rifiuta l’idea che la loro morte sia un dato neutro da passare a verbale. Lo scambio sale di giri in pochi secondi: Mizrahi usa la parola «fascista» riferita al comportamento dell’attore; Iacchetti esplode, ricambia con termini ancora più duri e arriva a minacciare un confronto «a pugni». Lo studio si ghiaccia, parte la pubblicità.
È su quel crinale – il momento in cui la discussione si sposta dal merito al marchio – che la tv smette di reggere la complessità e si trasforma in ring. Il passaggio non è solo verbale. È ritmico. Le frasi si accorciano, la punteggiatura si fa concitata, la postura degli ospiti cambia. In un talk generalista, basta poco perché il dissenso diventi scontro personale: un’etichetta percepita come infamante, una contestazione sui numeri letta come negazione del dolore, un tono che suona derisorio. Tutto il resto – microfoni abbassati, regia che chiude, pubblicità – è conseguenza.
Quando si torna in onda, la linea è spezzata. Il punto non è più convincere chi guarda; è affirmare se stessi davanti alla telecamera. E qui si inserisce il giorno dopo di Iacchetti: lui non pretende di aver convinto la controparte, ma conferma di essersi riconosciuto nel suo scatto. È un tassello rilevante perché separa la cronaca del gesto dalla narrazione del principio. Nel suo racconto non c’è la ricerca di un equilibrio: c’è la scelta consapevole di non arretrare, a costo di risultare antipatico a una parte dell’audience.
Le parole chiave del dopo: “rifarei tutto”, “provocatore”, “ignorante”
Le frasi pronunciate da Iacchetti nel video successivo alla puntata sono materiale giornalistico allo stato puro, perché fissano il perimetro della vicenda. «Rifarei tutto», innanzitutto. Non è un modo di dire: è una metrica morale. Significa che il comportamento in diretta non è stato un corto circuito da contenere, ma un atto deliberato nel quale si riconosce. In secondo luogo, le qualifiche rivolte a Mizrahi: «provocatore», «bugiardo», «ignorante». È un lessico che non lascia margini a chiarimenti, e che porta il confronto su un piano personale molto difficile da ricomporre in tempi brevi.
Poi c’è il tema della gratitudine. Iacchetti ringrazia per i messaggi ricevuti, parla dell’amore arrivato dagli spettatori, cita anche l’ambiente di Striscia la Notizia che lo ha sostenuto con like e commenti. Non è un dettaglio di colore. È la dichiarazione di una comunità che si stringe attorno al suo volto in un frangente complicato. Per un personaggio pubblico, dire «non sono solo» subito dopo un episodio del genere equivale ad ammortizzare l’urto reputazionale e a legittimare la linea adottata.
Sul piano contenutistico, il punto che Iacchetti ribadisce è la centralità delle vittime civili. Nel suo racconto, non c’è spazio per una contabilità che separi terroristi e non combattenti come se i secondi fossero un rumore di fondo statistico. È questo sguardo – netto, spigoloso – a spiegare perché abbia preferito alzare la voce in studio: ritiene che su bambini e bombardamenti non si possa accettare nessuna derisione, nessuna pignoleria sulle fonti che suoni come relativizzazione. Può piacere o no, ma è il suo cardine.
Chi è Eyal Mizrahi e cosa ha replicato dopo lo scontro
Per comprendere fino in fondo la traiettoria del caso, è utile mettere a fuoco il profilo di Eyal Mizrahi e la sua replica. Di origine israeliana e da anni attivo in Italia, Mizrahi è il presidente della Federazione Amici di Israele e un volto ormai familiare nei talk dove si discute di sicurezza, terrorismo e medioriente. La sua presenza nei palinsesti ha una funzione di public diplomacy: difendere la narrazione israeliana sulla legittimità della guerra a Gaza e sulle informazioni da considerare attendibili in un teatro di propaganda incrociata.
Dopo quanto accaduto in studio, ha parlato a sua volta. Il punto centrale della sua versione è questo: a suo dire non c’era volontà di offendere, ma l’altra parte avrebbe preso il confronto sul personale, fino a minacciare un’aggressione. Sul tema della pace, ha aggiunto, «bisogna essere in due», e non pensa che Iacchetti voglia davvero tendere la mano: per Mizrahi, serve un confronto dai toni amichevoli, altrimenti non è possibile. Anche qui, come per Iacchetti, le parole non sono di circostanza. Tracciano una linea: se l’interlocutore ti definisce «bugiardo» e «ignorante» e minaccia di alzarsi, non ci sono le condizioni per una stretta di mano nel breve periodo.
In termini di percezione pubblica, la posizione di Mizrahi ha due effetti. Primo, sposta il focus dal merito del confronto ai modi del confronto, enfatizzando la misura e la padronanza di sé come criteri di giudizio. Secondo, consolida la polarizzazione: da una parte chi riconosce in Iacchetti la voce dell’indignazione, dall’altra chi vede in Mizrahi il baluardo della razionalità che non cede al pathos. Sono cornici che il giorno dopo rimbalzano sui feed e che finiscono per congelare le posizioni.
Il nodo dei numeri: tra contabilità delle vittime e lotta sulle fonti
Dentro il confronto c’è un tema tecnico che diventa politico: la contabilità dei morti. In studio vengono evocati ordini di grandezza che fanno tremare i polsi – decine di migliaia di vittime totali, migliaia di bambini – e si discute quali numeri siano citabili, da dove arrivino, come vadano letti. La frizione nasce proprio qui: la contestazione delle fonti è percepita da Iacchetti come un oltraggio al dolore; per Mizrahi è la base minima di ogni dibattito serio. È la classica faglia dei talk sull’attualità mediorientale: epistemologia contro etica, precisione contro compassione, come se una escludesse l’altra.
Nella sua replica post-diretta, Iacchetti sceglie di non ripercorrere punto per punto quella contabilità. Non fa fact-checking né tabelle. Fa un’altra cosa: spiega che non intende relativizzare con cifre e toni neutri ciò che a suo giudizio resta un fatto morale prima che statistico. È una posizione che, sul piano mediatico, lo colloca con chiarezza. In Italia, quando il discorso vira su Gaza, il pubblico si divide in segmenti che chiedono cose diverse: c’è chi vuole mappe, timeline, fonti, e chi ritiene che basti lo sguardo sul dolore per orientare la coscienza. Iacchetti, nel video, sceglie il secondo segmento senza mezze misure.
Questo non significa che non conosca le discussioni sui dati. In trasmissione ricorda le minacce ricevute negli ultimi mesi per le sue posizioni e respinge l’accusa di antisemitismo come un’arma retorica usata per tacitare critiche legittime alla condotta di guerra. Nel suo racconto, il punto non è dimostrare una cifra precisa, ma rifiutare l’idea che i bambini morti siano una variabile di cui discutere freddamente. Da qui l’assenza di attenuanti nella replica: chi prova a spostare il baricentro sul metodo, a suo avviso, svuota il merito.
Reazioni mediatiche e social: la cassa di risonanza
La sera stessa e la mattina dopo, il caso esplode in clip rilanciate sui social, nei siti di informazione, nei programmi che aprono con la rissa in diretta come notizia di apertura. I titoli raccontano l’insulto («fascista») e la risposta con minaccia di venire alle mani. È il tipo di contenuto che l’ecosistema digitale amplifica: un tempo chiaro, una vittima e un colpevole per ciascuna bolla, una frase forte da condividere. In questa griglia, il video con cui Iacchetti «rilancia» anziché smorzare fa esattamente quello che serve per dominare il flusso: offre un secondo atto.
La solidarietà online è tangibile. Profili con una lunga militanza tra fans di Iacchetti, volti legati all’ambiente di Striscia, utenti che in questi mesi si sono schierati su Gaza vedono nel suo gesto una rottura necessaria. Dall’altra parte, il fronte che lo critica parla di scena indecorosa, di violenza verbale, di sproporzione tra indignazione e argomentazione. La polarizzazione è immediata, quasi chimica. La rete non chiede sfumature: chiede un campo in cui stare. Il format del talk fa il resto, riproducendo la dialettica duri contro duri.
Questo clima di tifo incrociato non esaurisce però la lettura di ciò che è accaduto. Nel circuito professionale di chi fa tv, la gestione di momenti così caldi diventa materia di debriefing: fino a che punto è possibile tenere un confronto aspro senza arrivare all’insulto? Quando un’etichetta – come quella di «fascista» – rompe l’equilibrio e rende inevitabile l’interruzione? È compito della conduzione o responsabilità degli ospiti? Sono domande che emergono nei retroscena e nelle riunioni di produzione il giorno dopo. Non sono filosofia: sono procedura.
La cornice televisiva: regole non scritte, diritti e limiti del contraddittorio
Nell’architettura dei talk, alcune regole non scritte pesano più dei format. La prima: il diritto di parola si esercita dentro un confine condiviso. Puoi contraddire “duro su duro”, ma c’è un vocabolario oltre il quale il contraddittorio collassa. La seconda: la conduzione ha la facoltà – e a volte il dovere – di chiudere la sequenza per evitare lo spettacolo dell’umiliazione o il passaggio alla violenza. La terza: l’ospite noto, quando alza la voce, trascina con sé una parte di pubblico che legittima lo scatto e ne aumenta l’audience, ma si assume un rischio reputazionale che non si cancella in 24 ore.
Dentro queste regole, la replica di Iacchetti – «rifarei tutto» – è un atto consapevole. Significa che preferisce pagare l’eventuale costo del linguaggio rispetto a quello del silenzio. Dal suo punto di vista, essere morbidi su Gaza equivarrebbe a complicità. La tv, però, vive di forme oltre che di contenuti, e misura l’accettabilità di un comportamento in base all’effetto che produce sul pubblico generalista. Ecco perché la sua dichiarazione, se da un lato cementa il legame con chi lo sostiene, dall’altro irrita chi chiede agli ospiti di tenere il perimetro, soprattutto quando il tema tocca identità e traumi collettivi.
In questo equilibrio imperfetto, anche la posizione di Mizrahi ha una sua logica televisiva. Chiedere fonti, contestare numeri, respingere accuse con toni controllati è una strategia che funziona quando l’arena si aspetta argomentazioni più che emozioni. Il problema è che di fronte a morti civili e bambini, ogni discussione sull’attendibilità appare a metà tra il doveroso e lo scandaloso. Dipende da chi guarda, da quale premessa etica porta con sé davanti allo schermo. Ed è proprio per questo che, dopo lo scontro, le repliche dei due protagonisti scorrono su binari paralleli.
Cronologia e contesto: le 5 W applicate al caso
Chi: Enzo Iacchetti, volto popolare della televisione italiana, e Eyal Mizrahi, presidente della Federazione Amici di Israele, attivo nel dibattito mediatico sulla guerra in Medio Oriente.
Cosa: uno scontro in diretta durante È sempre Cartabianca, con insulti, minacce di confronto fisico e interruzione pubblicitaria; il giorno dopo, la replica di Iacchetti sui social in cui conferma e rilancia la sua posizione, definendo la controparte «provocatore, bugiardo, ignorante» e affermando che ripeterebbe ogni parola.
Quando: la lite va in onda martedì 16 settembre 2025; la dichiarazione postata da Iacchetti arriva mercoledì 17 settembre 2025.
Dove: in studio a Rete 4, nel talk È sempre Cartabianca; la replica successiva su Instagram.
Perché: il nodo è la lettura della guerra a Gaza, con particolare riferimento ai numeri delle vittime e alla proporzionalità della risposta militare israeliana; per Iacchetti, ogni relativizzazione del dolore dei civili – in primis i bambini – merita una risposta senza filtri.
Questa scansione AP aiuta a fissare l’essenziale e a evitare che il caso si perda tra interpretazioni divergenti. Soprattutto serve a illuminare l’intento della replica: non “giustificarsi”, ma ribadire una linea. A chi gli chiede prudenza, Iacchetti risponde con coerenza e con un linguaggio che non cerca attenuanti. È il tratto che rende la sua dichiarazione notiziabile e che, allo stesso tempo, complica qualsiasi ricucitura a breve termine.
Il fattore reputazionale: cosa cambia per i protagonisti
Per Iacchetti, la scelta di rilanciare ha un impatto su tre piani. Sul piano professionale, rafforza l’immagine di un personaggio non equidistante, disposto a metterci la faccia anche a costo di perdere simpatia presso una porzione di pubblico. Sul piano editoriale, apre una discussione tra reti e redazioni su come e quanto far sedere a tavola insieme ospiti che portano orizzonti incommensurabili. Sul piano personale, lo espone a una nuova ondata di sostegno e di critiche, entrambe inevitabili quando si toccano fedi civili e paure collettive.
Per Mizrahi, la scelta di spostare il discorso sui toni e sulla possibilità – o meno – di un confronto pacifico è coerente con il ruolo che si è dato nel dibattito italiano: essere l’argine alle semplificazioni e difendere l’idea che, anche nella tragedia, la precisione conti. È una postura che raccoglie consenso in chi rifiuta la politica dell’urlo, ma che agli occhi dei detrattori suona come insensibilità davanti ai morti. Anche per lui, dunque, il giorno dopo è binario: applausi per la fermezza, accuse di freddezza.
Sul versante televisivo, il caso diventa banco di prova per la governance dei talk show. La misurazione del rischio – di ascolti, di immagine, di compliance – non è più una teoria. È una pratica che si aggiorna episodio dopo episodio. Ci si chiede: vale la pena correre il rischio di mettere insieme figure così esplosive? Qual è il format che regge il confronto senza cedere al circo? E soprattutto: a quale pubblico si parla quando si decide di accendere questi fiammiferi in prima serata? Le risposte non sono univoche, ma il caso Iacchetti–Mizrahi le rende urgenti.
L’eco nelle redazioni e l’effetto sulle scalette
Nelle ore successive, le scalette dei programmi di informazione si adattano. Il video di Iacchetti diventa materiale per l’apertura, le sue parole sono trascritte, rilanciate e commentate da opinionisti con sensibilità diverse. La figura dell’ospite-colonna – l’artista o il volto noto che non parla “da tecnico” ma da cittadino indignato – torna al centro. Una parte del pubblico lo riconosce come valore: in tempi di guerra, dicono, servono voci che non facciano sconti. Un’altra parte chiede invece di ritrovare misura, di mettere ordine alle parole prima che diventino pietre.
La novità della replica di Iacchetti sta anche nel montaggio del messaggio: breve, diretto, con pochi concetti chiave ripetuti con intenzione. È un format che i giornali e i siti possono incastonare con facilità, e che i social portano a viralità. Si capisce tutto in dieci secondi: chi è il Chi, cosa ha detto, perché lo ha detto, quando lo ha detto. Nel mondo informativo che vive di scroll, questa compressione è oro. E spiega perché il suo video abbia funzionato come atto due di una narrazione già di per sé televisiva.
Una ferita aperta: cosa resta davvero dopo il giorno dopo
Al netto dei rilanci, l’elemento più perdurante del caso resta la coincidenza tra forma e contenuto. Iacchetti denuncia ciò che considera un massacro e, per farlo, usa parole-lama. Mizrahi difende la cornice di una guerra che ritiene legittima e ribadisce la necessità di verificare. In mezzo, il pubblico che alterna empatia e rigore, chiedendo contemporaneamente commozione e dimensionamento. Non è una contraddizione nuova, ma qui si esprime con una chiarezza che rende difficile un passo indietro. E quando il giorno dopo non riduce ma amplifica le differenze, il solco si approfondisce.
Il caso, però, racconta anche qualcosa del Paese che lo guarda. Lo racconta attraverso il lessico che accettiamo in tv, le soglie oltre cui non vogliamo vedere andare un confronto, la disponibilità a tollerare il dolore degli altri al prezzo di una cifra in più o in meno. In questo senso, la replica di Iacchetti non è solo un vaffa d’autore. È un atto politico nel senso più ampio: l’affermazione che ci sono linee – i bambini, i civili – oltre le quali la ricerca di sfumature appare come complicità. È un pensiero che molti condividono e altri rifiutano, ma che comunque spiega la sua intransigenza.
Ultima battuta, a microfoni spenti
Una linea che non arretra. È questo, in definitiva, il messaggio che Enzo Iacchetti ha consegnato agli spettatori dopo la lite con Eyal Mizrahi. Ha scelto di non cambiare una virgola, di rilanciare i toni, di ringraziare chi lo sostiene e di sfidare chi lo critica, rimettendo al centro il dolore dei civili come bussola del dibattito.
Ha trasformato un episodio televisivo in una dichiarazione d’intenti: non si tratta di un fuori pista da riparare, ma di un atto rivendicato nel merito e nel metodo. Nel giorno in cui ogni parola pesa come un titolo, la sua non si ritira. E, piaccia o no, è questo che fa la notizia.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Repubblica, Corriere della Sera, Adnkronos, La Nuova Sardegna, Virgilio, Libero.

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