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Hamas inizia la resa dei conti: a Gaza esecuzioni e vendette

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Hamas inizia la resa dei conti

A poche ore dall’accordo di pace firmato a Sharm el-Sheikh il 13 ottobre, Hamas ha rimesso in strada miliziani e polizia, riaffacciando posti di blocco, retate e “sentenze rivoluzionarie” contro presunti collaboratori e contro i capi delle milizie rivali. L’obiettivo, dichiarato nella sua esibizione muscolare, è riagganciare subito il controllo della Striscia, mentre la tregua impone calma ai fronti e consente la ripresa degli aiuti. È la grammatica di una resa dei conti che si consuma tra Gaza City, i campi profughi del nord e le aree di Rafah, con un messaggio limpido al quartiere e ai mediatori internazionali: l’ordine lo dettiamo noi, qui e ora.

Il quando è adesso, con la penna ancora fresca sulle firme del vertice egiziano e con un cessate il fuoco che ha sbloccato rilasci di ostaggi e liberazioni di prigionieri, facendo scorrere i primi convogli umanitari. Il dove è una mappa di incroci, mercati e ospedali in cui Hamas torna visibile: pattuglie lungo le arterie di Gaza City, presidi ai varchi della distribuzione di farina e acqua, incursioni notturne nei feudi delle famiglie armate. Il perché è tattico e politico insieme: chiudere le zone grigie nate nel vuoto di potere e presentarsi al tavolo post-Sharm come l’unico attore capace di far rispettare l’ordine. In questo quadro, il movimento islamista intreccia deterrenza spettacolare e gestione dei flussi vitali – aiuti, sicurezza di prossimità, rientri – per trasformare la tregua in capitale di controllo.

Che cosa è stato firmato a Sharm el-Sheikh e perché conta nelle strade di Gaza

A Sharm el-Sheikh, Egitto, Qatar e Turchia hanno formalizzato insieme agli Stati Uniti un accordo di cessate il fuoco in più fasi, che intreccia rilascio di ostaggi, liberazioni in Israele, afflusso di aiuti, avvio di una cornice di governance e, in prospettiva, disarmo delle fazioni nella Striscia. La fotografia del summit è diventata subito la cornice politica di ciò che accade a Gaza: un patto internazionale che congela i fronti e misura la credibilità di chi, sul terreno, promette ordine e sicurezza. Per Hamas, ciò significa dimostrare il monopolio della forza interna proprio nel momento in cui la comunità internazionale chiede riduzione delle armi e spazio a un’amministrazione civile. È una corsa contro il tempo: se a garantire le code per il pane e la protezione dei convogli umanitari è la forza che dovrebbe consegnare i fucili, ogni giorno di tregua cristallizza un equilibrio di fatto.

Sul piano operativo, la firma ha innescato passi concreti. Nel primo giorno utile sono stati annunciati i nomi dei primi 20 ostaggi israeliani da liberare in scambio con 2.000 prigionieri palestinesi, mentre aiuti e carburante hanno iniziato a filtrare in quantità maggiori riducendo i prezzi nei mercati. Ogni progresso ha però una ombra: quanto più aumentano movimenti e rientri, tanto più tornano appetibili i varchi che gang e clan hanno imparato a gestire nell’emergenza. È qui che la stretta di Hamas si fa tangibile nelle strade, con posti di blocco riaperti, irruzioni in depositi “non ufficiali”, arresti lampo di figure note nella logistica nera degli aiuti. La tregua alimenta speranze e tentazioni: l’organizzazione islamista ha scelto di spegnerle sul nascere dove non controlla il territorio.

Cosa sta facendo Hamas sul terreno dopo la firma: esibizione di forza e pattugliamenti

Dal pomeriggio delle firme l’architettura dell’ordine a Gaza è cambiata di colpo. Hanno ripreso quota pickup con uomini in assetto e bandane verdi, sono ricomparsi checkpoint mobili in prossimità delle scuole-rifugio e dei punti di distribuzione, sono aumentate le perquisizioni di furgoni e scooter all’imbocco dei quartieri più contesi. Ospedali e moschee sono diventati punti sensibili, con pattuglie che filtrano ingressi e deviano flussi quando è attesa una consegna massiva di aiuti. Si è rivista, soprattutto al nord, la coreografia della deterrenza: parate di poche decine di uomini che valgono come segnale politico al quartiere e come avvertimento a chi aveva costruito una rendita sulla mancanza di legge.

La narrazione che filtra dalle famiglie è spoglia, concreta. La panetteria riaperta all’alba solo per chi è in lista, la cisterna dell’acqua scortata per cinque incroci, la coda che non salta perché i ragazzi in tuta verde controllano e i mediatori di vicolo tengono a bada i parenti più nervosi. Dove passa il convoglio, spariscono i banchetti improvvisati di sacchi e taniche; dove l’apparato individua un magazzino parallelo, il cancello si chiude e sulla saracinesca compare la vernice che dice “sotto custodia”. È così che la tregua si traduce – senza comunicati – in monopolio dei varchi.

La purga: collaboratori, clan e milizie rivali nel mirino

Il primo strato della resa dei conti riguarda i presunti collaboratori con l’intelligence israeliana. Il 22 settembre, tre uomini sono stati fucilati in pubblico a Gaza City con l’accusa di spionaggio, in un’esecuzione geolocalizzata e verificata che ha segnato il ritorno della pena capitale visibile. In questa nuova fase post-Sharm, la minaccia di pene analoghe resta sul tavolo come strumento di disciplina: l’uso della piazza, della telecamera e del megafono anticipa l’atto punitivo o lo consolida come monito. Ad oggi, le autorità non hanno diffuso in modo verificabile i nomi dei tre giustiziati di settembre; l’effetto voluto, però, è già entrato nel circuito dei quartieri. Nessuno che abbia anche solo sfiorato l’idea di vendere una posizione o una targa vuole essere riconosciuto in mezzo alla folla.

Il secondo strato è l’economia dell’emergenza che, in due anni di guerra, ha prodotto gang in grado di assaltare camion, imporre gabelle ai cancelli e rivendere grano, acqua e benzina. Hamas qui agisce su snodi logistici: chi controlla la rotatoria che porta al magazzino, chi decide la lista della distribuzione, chi scorta i mezzi nel tragitto più rischioso. Ogni fermo, ogni sequestrato, ogni reso pubblico diventa un pezzo di deterrenza per svuotare la rendita criminale cresciuta nell’assenza di Stato. La visibilità è parte del metodo: la gente deve poter dire “hanno preso quelli che saltavano la coda con la moto” e sentire che la regola è tornata.

Il terzo strato, il più politico, riguarda clan e milizie rivali. Nelle settimane precedenti al summit egiziano, in più aree – dal sud alle periferie di Gaza City – sono cresciuti gruppi armati alternativi a Hamas, alcuni accusati da fonti palestinesi e israeliane di aver ricevuto armi e stipendi da Gerusalemme per erodere il potere del movimento islamista. Tra i nomi emersi ci sono Yasser Abu Shabab, legato alle cosiddette “Forze Popolari” con base tra Rafah ed est, e Hossam al-Astal, figura in ascesa catturata dai video dei giorni scorsi. Entrambi sono finiti nel mirino di operazioni di sicurezza lanciate subito dopo la firma, con scontri e rastrellamenti che hanno riallineato i rapporti di forza in più isolati. Dove i clan hanno provato a resistere, l’apparato ha alzato la posta con armi lunghe e arresti mirati dei capisquadra.

I nomi che contano per capire le faide interne

Nel sud della Striscia, Abu Shabab è diventato in pochi mesi il simbolo di una opposizione armata a Hamas in grado di concentrare consenso su sicurezza dei convogli e anti-rapina, ma anche di ritagliarsi rendite sulla pelle della crisi. Il suo gruppo è stato indicato da più fonti come beneficiario di forniture israeliane; a prescindere dai dettagli, il dato politico è che ha occupato segmenti di territorio che Hamas considera irrinunciabili per la propria sopravvivenza.

Dopo Sharm, l’aspettativa è che questa partita acceleri: o cooptazione con patti tribali e ruoli di facciata, o neutralizzazione a colpi di retate e processi lampo. In parallelo, nel quadrante urbano più complesso della città, al-Astal e altre figure minori si muovono tra visibilità social e guerriglia di vicolo, finendo – prevedibilmente – nel radar delle unità di sicurezza.

Perché questa stretta adesso: il vuoto di potere dopo la tregua

La firma di Sharm ha congelato i fronti, ma ha scongelato la domanda decisiva: chi comanda le strade. Mentre rientrano sfollati nelle case sventrate e riaprono i mercati improvvisati, le occasioni di guadagno – legali e illegali – si moltiplicano. La storia recente di Gaza insegna che, quando mancano elettricità, acqua e salari, il varco diventa potere. Hamas cerca di impedire che quel potere finisca a clan e gang che hanno imparato a far soldi nel caos. La stretta è allora preventiva: mostrare forza subito per evitare che domani si debba trattare in posizione di debolezza.

C’è poi un calcolo negoziale. Gli attori esterni che hanno accompagnato la firma – dal Cairo a Doha, da Ankara a Washington – hanno bisogno di un interlocutore stabile per far scorrere aiuti, incentivi e primi cantieri. Se il solo soggetto che garantisce le consegne e limita i saccheggi è Hamas, la sua centralità nel dispositivo post-tregua cresce, anche mentre si discute di disarmo. Ogni giorno di pattugliamenti senza incidenti gravi rende più costoso per chiunque immaginare una sostituzione netta dell’apparato con una forza terza. È una contraddizione che i mediatori hanno messo in conto: il terreno chiede ordine, il tavolo promette disarmo. Chi fornisce l’uno oggi guadagna sul secondo domani.

La linea sottile tra ordine e vendetta: esecuzioni e messaggi al fronte interno

Quando compaiono esecuzioni in pubblico, la linea che separa ordine e vendetta si fa sottilissima. L’episodio del 22 settembre resta un precedente operativo e simbolico: capta il consenso dei sostenitori, spaventa gli indecisi, schiaccia i ponti con i rivali. L’uso della parola “collaboratore” come etichetta totale serve a depoliticizzare la repressione, riducendo opposizioni e gang a varianti dello stesso reato. È un lessico che funziona nell’immediato ma produce cicatrici nei quartieri. In assenza di vie di ricorso visibili e di osservatori indipendenti nelle carceri, il rischio è che l’apparato si affidi a una giustizia sommaria che fa ordine oggi e disordine domani.

L’altra faccia della deterrenza è la comunicazione. Con i media stranieri che entrano a singhiozzo e i reporter locali esposti a rischi concreti, i video girano da telefoni e canali Telegram a redazioni lontane: un frammento di piazza può diventare verità di giornata, salvo essere poi smentito o ricontestualizzato. Per Hamas la visibilità è un’arma a doppio taglio: serve a mostrare capacità di governo all’esterno e potenza all’interno, ma può inchiodare l’organizzazione a immagini incompatibili con le promesse di disarmo e governance civile incorporate nell’accordo. Eppure, nel calcolo di breve periodo, la bilancia pende sempre dalla parte della forza mostrata.

Disarmo, stabilizzazione e governance: il paradosso post-Sharm

La fase due dell’intesa egiziana parla di disarmo delle fazioni e di ingresso graduale di una forza di stabilizzazione a supporto di una amministrazione tecnica palestinese. Ma il fatto è che a far rispettare l’ordine stradale, a proteggere i convogli, a dirimere le faide sono attualmente uomini armati di Hamas. La domanda, sul tavolo dei mediatori, è se si possa sostituire questo apparato senza scatenare una guerra di strada. L’esperienza di altri conflitti indica che la transizione funziona solo quando la forza uscente conserva canali di mediazione o quando i clan percepiscono garanzie reali: immunità, stipendi riciclati in incarichi civili, quote nei comitati di quartiere. In mancanza di ciò, la resa dei conti si riaccende a ogni tentativo di commissariamento.

In questa equazione, gli aiuti sono la leva principe. Chi conta i sacchi e decide i turni, comanda. È per questo che ogni nuovo magazzino e ogni nuovo ponte logistico diventano obiettivi politici oltre che umanitari. La ricostruzione – acqua, elettricità, scuole, ospedali – richiederà permessi, scorte, contratti. Se questi timbri passano da chi oggi reprime le gang e perseguita i presunti collaboratori, la sua centralità si rafforza. Se si prova a scavalcarlo, il rischio è di trovare interdizioni e sabotaggi locali che riportano la spirale al punto di partenza. La firma di Sharm apre quindi una finestra: o si costruisce subito un meccanismo di governance condivisa con regole verificabili, o la tregua diventa solo il palcoscenico di un’egemonia che si autoalimenta.

La notte di Gaza dopo la pace sulla carta: rituali di controllo, minime normalità

Ogni tregua si misura di notte. Dopo la firma, i quartieri hanno imparato una disciplina nuova: luci spente a un’ora tacita, spostamenti ridotti ai corridoi dichiarati sicuri, parole d’ordine che cambiano ogni due o tre giorni. Le famiglie tengono pronte le tessere distribuite dai comitati, perché senza quelle la fila al magazzino non si muove. Gli anziani si fanno accompagnare attraverso i checkpoint per evitare fraintendimenti. Le donne che gestiscono cortili e vicinati sanno a chi telefonare se un ragazzo esagera in coda o se un vicino prova a forzare la lista. È la micro-ingegneria che trasforma la tregua in vivibilità minima: poche regole, ma certe; poca libertà, ma prevedibile.

In questo contesto, ogni esibizione di forza ha un costo e un beneficio. Quando la parata attraversa il quartiere, scendono i furti e si abbassano i toni delle liti per la distribuzione. Ma resta una paura che si deposita come polvere sulle cose: parlare a voce alta, riprendere col telefono, contestare una perquisizione. La sovrapposizione tra chi aiuta e chi punisce crea una ambiguità con cui i civili convivono. Finché pane e acqua arrivano, l’adattamento prevale. Se gli aiuti rallentano e la repressione cresce, i quartieri serrano i denti e cercano sponde in altre reti: imam disponibili a mediare, mukhtar che contrattano esili e rientri, medici che certificano ferite per frenare rappresaglie.

Gli effetti collaterali: informazione, sanità, memoria delle famiglie

La cronaca di Gaza si scrive con telefoni tremanti e finestre socchiuse. Nelle ore successive alla firma, un flusso di video ha mostrato pattuglie, arresti e scorte dentro e fuori gli ospedali. In alcuni casi, la presenza armata nelle strutture sanitarie ha complicato gli accessi e spaventato i familiari: le direzioni hanno ritarato orari di visita e introdotto pass temporanei per i casi più urgenti. Anche qui, la differenza la fanno i mediatori: quando il responsabile della sicurezza e il primario si parlano, la corsia resta corridorio sanitario; quando a prevalere è la diffidenza, la corsia si trasforma in zona grigia dove la cura incontra la sorveglianza.

Poi c’è la memoria delle famiglie. Ogni esecuzione e ogni rastrellamento lasciano dietro parentele ferite e promesse di rivalsa. Nei calendari tribali, la vendetta ha tempi lunghi: non si consuma subito, ma segna identità e scelte future. Per evitare che la tregua si sgretoli in vendette a catena, servono accordi di quartiere con penali credibili e indennizzi rapidi in caso di abusi. È la politica minuta che spesso manca nei grandi disegni dei summit e che decide il destino di una strada più di un paragrafo sull’annesso C di un accordo.

Cosa sappiamo con certezza e cosa resta nel cono d’ombra

Ci sono dati certi emersi nelle ultime 48 ore. L’accordo di Sharm el-Sheikh è stato firmato con una platea internazionale ampia; il cessate il fuoco regge nelle sue prime ore; Hamas ha dispiegato uomini e polizia per riasserti il controllo; sono partiti rilasci e scambi che includono 20 ostaggi nella prima tranche; si vedono più aiuti entrare e prezzi un filo più bassi nei mercati. Ci sono poi fatti precedenti che illuminano la fase attuale: l’esecuzione pubblica del 22 settembre, geolocalizzata a Gaza City, che resta la matrice simbolica della deterrenza di oggi; la crescita di milizie rivali con nomi e leader riconoscibili; gli scontri interni che hanno insanguinato alcuni quartieri nelle scorse settimane.

Nel cono d’ombra restano elementi che le redazioni stanno ancora verificando: i nominativi dei giustiziati di settembre non sono stati pubblicati in modo verificabile da testate autorevoli; la catena di comando che governa la nuova sicurezza di quartiere appare mista e fluida; la sovrapposizione tra apparato di Hamas e comitati locali varia isolato per isolato. Sono incognite che pesano perché definiscono quanto la resa dei conti stia creando ordine e quanto stia solo congelando rapporti di forza destinati a riaccendersi.

Il redde rationem, adesso

La tregua firmata a Sharm el-Sheikh ha fermato i fronti e aperto una corsia politica. Ma a Gaza la politica esiste solo se cammina in strada. Hamas inizia la sua resa dei conti nel momento di massima esposizione internazionale, convinta che mostrare ordine valga più che raccontarlo. Finché pane e acqua passano dai varchi sotto controllo, finché le file scorrono senza rapine e i clan arretrano, il movimento può sostenere di governare la tregua e presentarsi come interlocutore inevitabile della ricostruzione. È un equilibrio che costa lacrime e paura ai civili e che contraddice – già oggi – la promessa di disarmo e governance tecnica su cui si è costruito l’accordo egiziano. Se il processo post-Sharm saprà tradurre la forza esibita in regole verificabili, mediazioni trasparenti e garanzie per chi depone le armi, la tregua potrà diventare stabilità.

Se resterà solo parata e punizione, la resa dei conti sarà un intermezzo prima di nuove fratture. Per ora, la notte di Gaza scorre a passi cadenzati, tra il ritorno dei convogli e il sordo tuono di porte sfondate: il linguaggio con cui, da sempre, qui si misura chi comanda davvero.


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