Domande da fare
Gaza pace in bilico? Se Hamas non consegna i corpi dei rapiti

Israele ha bloccato per due giorni il valico di Rafah e ha ridotto l’ingresso degli aiuti, legando la riapertura alla restituzione delle salme degli ostaggi uccisi e ancora trattenute a Gaza. La mossa arriva all’indomani della firma dell’accordo di pace annunciato a Sharm el Sheikh, dopo il rilascio degli ultimi sequestrati vivi. Nelle stesse ore, da Gaza sono arrivate nuove accuse di violazioni del cessate il fuoco e segnalazioni di vittime durante i tentativi di rientro nelle aree evacuate. La domanda è concreta: questa tregua può reggere? La risposta, guardando ai fatti, dipende da un unico, doloroso dossier che vale più di qualsiasi comunicato politico: il rientro dei corpi. Se la consegna procede in tempi rapidi e tracciati, la pressione sui valichi si allenterà, gli aiuti riprenderanno ritmo e la “fase due” dell’intesa potrà davvero partire; se invece si inceppa, la salute della tregua peggiorerà di ora in ora.
Le parti non si muovono nel vuoto. Hamas sostiene che i recuperi sono resi lenti da macerie e ordigni inesplosi, ha annunciato la restituzione di altri corpi e accusa Israele di spari oltre la linea di ritiro; Gerusalemme insiste che l’accordo impone la restituzione integrale e immediata dei resti e che l’uso del varco di Rafah è leva necessaria per ottenerla. In mezzo, la comunità internazionale e i mediatori – con l’Egitto in prima fila – spingono per aprire tutti i valichi umanitari, mentre sul terreno crescono la fame, le infezioni e le urgenze chirurgiche. La tenuta della tregua, qui e ora, è una funzione diretta di tre variabili: consegna delle salme, riapertura dei passaggi, disciplina delle unità armate lungo la “Linea Gialla” del ritiro israeliano. È un equilibrio fragile ma misurabile, che si valuta su scadenze concrete e non sugli slogan.
Cosa è successo nelle ultime ore
Il quadro emerso tra la sera e la notte è scandito da numeri e decisioni ufficiali. Israele ha confermato la chiusura temporanea di Rafah per l’ingresso degli aiuti e ha collegato la riapertura al trasferimento di tutte le 24 salme ancora mancanti dopo che, a ridosso della liberazione degli ultimi 20 rapiti vivi, sono stati restituiti quattro corpi. Dall’altra parte, la leadership di Hamas ha denunciato “violazioni del cessate il fuoco” attribuendo alle forze israeliane la morte di 44 palestinesi nelle ultime 24 ore, mentre altre fonti locali hanno riferito di 9 vittime tra chi cercava di tornare nelle case a Gaza City e Khan Yunis. L’IDF ha parlato di “colpi di avvertimento” verso individui sospetti avvicinatisi alle truppe o alla zona di demarcazione della Linea Gialla, la barriera provvisoria che separa le aree evacuate dalla progressiva ritirata dei reparti.
Nel frattempo, l’Egitto ha inviato squadre di supporto per contribuire all’individuazione dei luoghi dove potrebbero trovarsi i resti degli ostaggi, in coordinamento con i mediatori e con il Comitato internazionale della Croce Rossa. Il contesto è estremamente complesso: i quartieri più colpiti sono un labirinto di detriti, con vie ostruite e strutture instabili; i soccorritori si muovono tra edifici collassati, mine e residuati bellici. Su questo sfondo, le dichiarazioni pubbliche si alternano con messaggi più sobri consegnati ai tavoli tecnici: il recupero forense è possibile ma richiede tempo, accessi sicuri e mezzi adeguati.
Il nodo dei corpi degli ostaggi
La restituzione dei corpi non è un dettaglio negoziale, è la condizione morale e politica per trasformare un cessate il fuoco in qualcosa che somigli a una pace. Per Israele è un impegno imprescindibile verso le famiglie e un sigillo sulla chiusura del capitolo sequestri; per Hamas è una leva che ha scelto di non sciogliere subito, in parte perché l’operazione di recupero è per sua natura lenta e rischiosa, in parte perché la gestione dei tempi resta un elemento di pressione reciproca. A complicare il quadro c’è l’oggettiva distruzione della Striscia: secondo le stime più condivise, oltre l’80% degli edifici è danneggiato o distrutto, con picchi che a Gaza City arrivano oltre il 90%. In questo scenario, localizzare resti umani dopo mesi, identificarli e trasferirli in modo rispettoso significa attivare canali tecnici, sanitari e logistici che devono funzionare al millimetro.
La Croce Rossa ha messo in chiaro che potrebbero volerci giorni o settimane per ritrovare ogni singola salma e che, realisticamente, una parte potrebbe non essere mai rintracciabile. Non è pessimismo: è il risultato di un calcolo che incrocia la quantità di macerie con la sicurezza degli operatori, la disponibilità di mezzi speciali e l’accesso alle aree più instabili. A Gaza, le squadre locali hanno già recuperato oltre 250 corpi dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, ma la stima di quelli rimasti sotto le rovine supera le diecimila unità. Ogni recupero mette in moto procedure di identificazione, contatto con le famiglie, trasferimento e scambio di documenti: è un lavoro che non si vede ma che decide la credibilità dell’intero accordo.
Rafah chiusa: impatto umanitario e sanitario
La decisione di chiudere Rafah colpisce al cuore l’ecosistema degli aiuti. Meno camion significa meno carburante per generatori e ospedali, meno acqua potabile in una rete idrica al collasso, meno farmaci e dispositivi per chirurgia e traumatologia. A incidere non è solo il volume, ma la prevedibilità dei flussi: una sala operatoria non può programmare amputazioni e ricostruzioni se il lotto di anestetici o di placche ortopediche non ha un orario di arrivo certo. Per la popolazione, ogni valico chiuso si traduce in file più lunghe, razionamenti, disidratazione nelle aree senza desalinizzazione, ospedali che spengono luci e macchinari quando finiscono i litri di gasolio.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha individuato 15.600 pazienti che necessitano di evacuazione medica urgente fuori dalla Striscia, fra cui 3.800 bambini in gran parte amputati o con lesioni complesse. Per loro, la differenza tra una frontiera aperta e una chiusa non è un’astrazione geopolitica: è tempo chirurgico guadagnato o perso, è la possibilità di entrare in una terapia intensiva realmente funzionante. ONU e Croce Rossa chiedono l’apertura di tutti i valichi per dare respiro a una macchina umanitaria in apnea. Se la riconsegna delle salme si sblocca, l’aspettativa sul campo è una riapertura graduale con corridoi dedicati a mezzi sanitari e beni essenziali.
La “fase due”: sicurezza e amministrazione della Striscia
All’ombra del braccio di ferro sui corpi si prepara la cosiddetta “fase due” dell’intesa. Il pacchetto comprende sicurezza, governance di transizione e ricostruzione. Sul lato sicurezza, gli obiettivi immediati sono ridurre gli attriti lungo la Linea Gialla, prevenire infiltrazioni e incidenti con civili in movimento, e creare canali di comunicazione quotidiani tra unità sul terreno e mediatori. Qui la parola chiave è disciplina: un singolo scontro può rimettere in moto dinamiche di ritorsione e messaggi politici che costringono le parti a inasprire il tono.
Sul versante amministrativo, si lavora a una struttura provvisoria in grado di assicurare servizi essenziali, pagamento degli stipendi al personale sanitario e municipale, ripresa della gestione rifiuti, riparazioni di reti idriche ed elettriche. In parallelo, i donatori internazionali chiedono una filiera trasparente per fondi e appalti, con standard compatibili con il diritto internazionale e controlli indipendenti. La ricostruzione richiede prima di tutto rimozione e trattamento delle macerie: si parla di decine di milioni di tonnellate da smaltire, con piani di bonifica e messa in sicurezza per materiali pericolosi. Senza questa fase, riaprire scuole e ospedali resta un proposito.
Incidenti, vendette interne e rischio di escalation
La tregua non si misura solo sulle linee di contatto. A Gaza si sono registrati episodi di violenza interna, inclusa la diffusione di un video che documenta l’uccisione sommaria di oppositori e membri di famiglie beduine accusati di collaborazionismo o ostilità a Hamas. Queste sequenze, al di là dell’impatto emotivo, hanno un effetto corrosivo sulla fiducia di comunità già provate e complicano il lavoro di chi cerca di avviare percorsi di riconciliazione locale. Nelle città, poi, la combinazione di penuria di cibo, mercato nero e assenza di polizia alimenta bande e regolamenti di conti che nulla hanno a che fare con la politica, ma che influiscono sulla percezione di sicurezza e sulla disponibilità della popolazione a seguire le indicazioni dei mediatori.
Sul fronte esterno, ogni sparatoria vicino a una colonna umanitaria, ogni colpo di avvertimento che finisce in tragedia, ogni incursione interpretata come una violazione, rischia di trasformarsi in un caso politico. È per questo che gli attori internazionali spingono per meccanismi di deconfliction più stringenti, con mappe aggiornate in tempo reale, linee telefoniche dedicate, e finestre di passaggio pubblicate con anticipo. Ridurre gli spazi di ambiguità è l’unico modo per abbassare la temperatura.
Numeri della devastazione e perché rallentano tutto
La geografia della Striscia spiega molti ritardi. Interi quartieri sono un tessuto collassato dove una via che ieri sembrava praticabile oggi è interrotta, e i palazzi rimasti in piedi hanno strutture lesionate. Le stime più accreditate parlano di oltre l’80% degli edifici danneggiati o distrutti complessivamente, con punte del 92% a Gaza City. La massa di detriti supera i 55 milioni di tonnellate. Numeri così non significano solo che servono ruspe e camion: vuol dire che occorrono ingegneri, bonificatori, logistici, squadre EOD per gli ordigni inesplosi, e corridori umanitari stabili per farli lavorare. Se manca uno di questi anelli, l’intera catena si ferma.
Questa realtà incide sul recupero delle salme, sui trasporti sanitari, sull’arrivo degli aiuti e persino sulla raccolta rifiuti, che in tempi di epidemie stagionali può fare la differenza tra una crisi sanitaria gestibile e una fuori controllo. Ogni cantiere che si apre richiede permessi, messa in sicurezza dell’area, sorveglianza, e spesso scorte per il personale. È un insieme di dettagli operativi che raramente entrano nei comunicati, ma che determinano il ritmo con cui una tregua diventa quotidianità.
Cosa guardare nelle prossime settimane
Ci sono indicatori concreti che i lettori possono seguire per capire se la tregua si consolida. Il primo è il calendario delle riconsegne: notizie su nuove salme trasferite con identificazione certificata indicano che la leva di Rafah sta producendo risultati. Il secondo è il ritmo dei valichi: quando iniziano a passare con regolarità carburante, acqua, kit chirurgici e mezzi di evacuazione, vuol dire che i canali sono attivi. Il terzo è l’andamento degli incidenti lungo la Linea Gialla: meno episodi, meno feriti, meno interdizioni improvvise equivalgono a maggiore disciplina. Il quarto è l’avvio visibile di cantieri di rimozione macerie con squadre miste e controlli indipendenti: significa che la transizione ha messo radici.
Un altro termometro è l’evacuazione sanitaria. Se aumenta il numero dei pazienti presi in carico e ridotti i tempi di attesa per i casi più gravi, la macchina umanitaria sta funzionando. Allo stesso modo, l’eventuale riapertura delle scuole, anche in forma ridotta e temporanea, è un segnale fortissimo: per ripartire servono strutture agibili, acqua, sicurezza nelle aree circostanti. Infine, attenzione al coordinamento tra mediatori: quando Egitto, Qatar e gli altri attori diffondono note con date, volumi e itinerari, aumenta la responsabilità pubblica e diminuisce lo spazio per i fraintendimenti.
La stretta politica: promesse, leve e realtà
Sul piano politico, le parole pronunciate nelle ultime ore contano ma contano di più i meccanismi di verifica. L’annuncio della pace a Sharm el Sheikh ha chiuso la fase degli ostaggi vivi e aperto quella, più silenziosa, dei resti. La frase “il lavoro non è terminato”, rilanciata con forza, traccia una linea di aspettative che verrà misurata ogni giorno. Todavia, chiunque segua i conflitti sa che il passaggio dagli annunci alle procedure è il punto più difficile. Per questo nelle capitali si lavora a tabelle di marcia con punti di controllo settimanali, e a meccanismi di responsabilità per chi rallenta o devia.
La realtà, finora, dice che la leva su Rafah ha un costo che ricade innanzitutto sui civili. È comprensibile dal punto di vista di chi la esercita, ma è sostenibile solo per archi temporali brevi e strettamente collegati a passi verificabili dall’altra parte. È qui che la mediazione egiziana diventa decisiva, perché combina accessi sul terreno e autorevolezza regionale. In parallelo, sul fronte interno israeliano, la pressione delle famiglie degli ostaggi rimane altissima: il ritorno dei corpi non è solo una richiesta dello Stato, è la domanda quotidiana di chi attende una sepoltura. A Gaza, dove vendette e giustizialismo tornano a galla, il lavoro delle autorità locali e delle organizzazioni civiche per arginare gli abusi incide direttamente sulla possibilità di tenere in piedi l’ordine minimo necessario a negoziare.
Quando la dignità dei resti diventa il cardine della pace
Tutto porta allo stesso punto: la pace regge se i corpi tornano a casa. Non si tratta di un dettaglio simbolico, ma di un vincolo operativo che sblocca i valichi, riallinea le aspettative, ridà forza ai mediatori e toglie ossigeno ai sabotaggi. La finestra è stretta, ma c’è. Ogni riconsegna apre spazi per riaprire Rafah, stabilizzare la Linea Gialla, ridurre gli incidenti, far passare i convogli e avviare i cantieri. Al contrario, ogni ritardo prolungato renderà la leva dei valichi più difficile da sostenere e spingerà gli attori in una spirale di mosse e contro-mosse che la popolazione civile non può permettersi.
Per i lettori italiani, abituati a vedere la regione come una sequenza di vertici e dichiarazioni, il punto concreto è questo: nelle prossime ore contano i fatti certificabili più delle parole. Se vedremo liste di salme consegnate, date di passaggio, numeri di pazienti evacuati, itinerari concordati e cantieri che partono, potremo dire che la tregua ha trovato il suo ossigeno. È la dignità data ai resti che può trasformare una firma in un processo. Ed è da lì che passa, davvero, la possibilità che la pace annunciata a Sharm el Sheikh non resti un titolo, ma diventi quotidiano.
🔎 Contenuto Verificato ✔️
Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: ANSA, la Repubblica, Corriere della Sera, RaiNews, AGI, La Stampa.

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