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È morto Emilio Fede: cosa ci lascia il direttore del TG4?

Foto di ArezzoTv, via Wikimedia Commons, licenza CC BY 3.0.
Aveva 94 anni, una carriera incredibile ricca di spunti importanti ma anche situazioni entrate nella cultura pop italiano. Addio, Emilio Fede.
Emilio Fede è morto oggi, 2 settembre 2025, a 94 anni. Si è spento dopo un progressivo peggioramento delle condizioni di salute, in una residenza sanitaria alle porte di Milano, dove viveva da tempo. La notizia chiude una stagione della televisione italiana: il volto, la voce, il gesto con la mano a scandire l’editoriale — un marchio riconoscibile per generazioni di telespettatori. La sua scomparsa apre subito una domanda concreta: qual è l’eredità di un direttore che ha unito cronaca, militanza e spettacolo come pochi altri nel sistema dei media?
Per oltre mezzo secolo Fede ha abitato il piccolo schermo, passando dalla scuola della Rai alla lunga stagione di Rete 4. È stato per molti l’incarnazione di un telegiornale-personaggio, in cui la notizia arrivava assieme a una lettura forte, spesso divisiva. Ha accompagnato la nascita e la crescita della televisione commerciale in Italia, interpretandone spirito e linguaggio. È stato direttore del TG4 per vent’anni e più, figura-simbolo del berlusconismo mediatico, sostenitore appassionato — e dichiarato — del suo editore. Nel bene e nel male, il suo nome è diventato sinonimo di un certo modo di fare informazione televisiva: costruito sull’identità, sulla riconoscibilità, sulla relazione continua con il pubblico.
Un volto che ha segnato il racconto dell’Italia in TV
La parabola di Emilio Fede coincide con l’evoluzione del racconto televisivo del Paese. Nato nella carta stampata e cresciuto nei giornali radio e nei telegiornali della Rai, approda al prime time con la sicura postura dell’anchorman d’antan: studio sobrio, tono scandito, autorialità spiccata. Quando la televisione commerciale allarga il suo raggio e chiede un giornalismo più identitario, Fede coglie l’aria del tempo e ne diventa interprete. Il TG4 sotto la sua guida è informazione ma anche narrazione — un filo continuo tra la cronaca e un punto di vista capace di fidelizzare il pubblico di Rete 4 nella fascia serale. Nei picchi di ascolto di quegli anni si intravede un patto editoriale: “ti offro la notizia, ma ti offro anche la mia lettura”, con una regia che esalta il primato del conduttore. Un patto che oggi suona quasi archeologico eppure ha anticipato forme di infotainment divenute poi consuetudine.
La sua scrivania diventa palcoscenico. L’editoriale in chiusura, spesso lungo e personalissimo, è il momento in cui la conduzione si fa commento, il commento si fa linea editoriale. Gli avversari politici storcono il naso, gli estimatori lo cercano proprio per quello: la riconoscibilità. E questa riconoscibilità non è un dettaglio estetico ma un pezzo di storia industriale: senza Fede — nel bene e nel male — la mediasfera italiana tra anni Novanta e Duemila sarebbe stata diversa. In una tv che comincia a frammentarsi tra talk, breaking news e all-news, il TG4 “di Fede” regge grazie a uno storytelling in cui il volto è la firma, la firma è la garanzia, e la garanzia è la relazione con il proprio pubblico.
Dal TG1 al TG4: la carriera e i passaggi chiave
Il percorso professionale di Fede è una mappa che attraversa i gangli dell’informazione italiana. In Rai affina i tempi del giornalismo televisivo classico, tra TG1 e direzioni brevi ma dense. Nel passaggio alle reti Fininvest/Mediaset, entra in una macchina che cerca format e personalità forti: Studio Aperto segna un ponte verso una cronaca più ritmata, mentre il salto al TG4 lo consegna alla sua stagione definitiva. Dal 1992 in poi, il notiziario di Rete 4 porta la sua impronta: apertura sull’attualità politica ed economica, attenzione costante alla cronaca (nera e giudiziaria), taglio diretto, costruzione di frame narrativi chiari, quasi didascalici. Non è solo regia editoriale; è impostazione di brand: il TG4 diventa il “telegiornale di Fede”, e Fede ne diventa garante e testimonial.
Anche quando la direzione cambia e gli assetti di rete si rimescolano, la sua autobiografia televisiva resta legata al telegiornale del prime time di Rete 4. Le lunghe stagioni elettorali lo vedono protagonista, con speciali, maratone, finestre in cui l’informazione sconfina nella militanza e la militanza si fa spettacolo, tra collegamenti, titoli iperbolici, enfasi lessicale. Tutto questo, per gli uni, è il segno di un uso “di parte” del mezzo; per gli altri, la naturale evoluzione di una tv commerciale che sceglie il proprio pubblico e lo coccola con una chiave identitaria. In ogni caso, l’esperienza di Fede come direttore e conduttore è un laboratorio permanente su come il format del telegiornale possa adattarsi all’ecosistema concorrenziale.
L’alleanza con Berlusconi: tra fedeltà e identità editoriale
Fede e Silvio Berlusconi sono stati — per ammissione dello stesso giornalista — legati da un rapporto che travalicava il confine editoriale. Quel legame ha definito non solo la sua immagine pubblica ma l’identità del TG4: il notiziario come avamposto di un racconto politico e culturale coerente con il progetto del suo editore. Chiamarlo “innamorato di Silvio” era un modo rapido per dirne la lealtà e la franchezza: Fede non ha mai nascosto il suo punto di vista, anzi lo ha esibito come cifra professionale. Questo ha cristallizzato attorno a lui una doppia percezione: campione di uno schieramento per chi la pensava come lui, simbolo di contiguità tra informazione e potere per chi contestava quel metodo.
L’alleanza, però, non si esauriva nella politica. C’era anche una visione comune della televisione come luogo di relazione, come palcoscenico in cui la personalità del conduttore fa la differenza. La fidelizzazione del pubblico nasce lì: nell’idea che il tg non sia solo un flusso di notizie ma un incontro quotidiano con un narratore riconoscibile. Il costo di questa scelta, ovviamente, è alto: l’oggettività — o meglio, la sua pretesa — cede alla trasparenza del punto di vista. Fede ne ha fatto un tratto distintivo, rivendicandolo: meglio dichiarare da che parte si guarda il mondo, che mettere tra parentesi un’aderenza culturale e politica evidente. È una filosofia che ha trovato spazio in molte televisioni occidentali e che in Italia ha avuto in lui un interprete precoce.
Successi, cadute, processi: l’ombra lunga delle polemiche
La biografia professionale di Fede non è stata lineare. Il successo televisivo ha convissuto con polemiche e vicende giudiziarie che hanno occupato pagine di cronaca e talk show. Tra le pagine più pesanti c’è la condanna per bancarotta fraudolenta legata al caso Lele Mora, che ha segnato l’ultimo decennio della sua vita pubblica. C’è poi la scia del caso Ruby e l’intreccio tra mondanità, politica e informazione che ha attraversato gli anni Dieci mettendo sotto pressione il sistema-Mediaset e lo stesso circuito dei rapporti di potere. Tutto questo ha eroso l’immagine del direttore “totem” trasformandolo, col tempo, anche in un personaggio di costume, spesso al centro di parodie e di un racconto mediatico inclinato al grottesco.
Eppure, proprio dentro le cadute, si coglie l’altra metà del personaggio: la testardaggine dell’uomo di televisione che non arretra di un millimetro sulla propria identità. Anche quando lo scenario cambia — nuovi direttori, nuovi palinsesti, l’all-news che cannibalizza l’evento, i social che anticipano la breaking news — Fede rimane Emilio Fede: un professionista convinto che il timone del telegiornale debba avere un volto e una voce capaci di mettere ordine nel caos informativo. È una postura che oggi può sembrare anacronistica, nell’epoca della disintermediazione, ma che per anni ha garantito coerenza a un pubblico preciso. Nel giudizio complessivo, pesano luci e ombre: meriti eccessivi attribuiti dai suoi sostenitori, responsabilità eccessive addossate dai detrattori. Ma nessuno, con onestà, può negare che il suo stile abbia lasciato un segno profondo.
Il personaggio oltre il giornalista: linguaggio, gaffe, imitazioni
In un’epoca in cui la tv generalista viveva ancora di rituali condivisi, Fede è stato materia prima di imitazioni, sketch, complicità e feroci satire. Dalla postura alla prossemica di studio, dal lessico volutamente sincopato alle ipérboli — “clamoroso”, “incredibile”, “attenzione” — ogni elemento ha contribuito a costruire una maschera. Le gaffe occasionali, rilanciate e moltiplicate dai programmi comici e dai social, hanno accresciuto la sua fama pop. Anche questa è eredità: l’idea che il notiziario potesse essere allo stesso tempo il luogo della serietà e della citazione pop, un contenitore riconosciuto e riconoscibile dentro la cultura di massa. Il TG4 dei suoi anni non è stato solo un prodotto informativo: è entrato nel linguaggio comune, è diventato meme ante litteram, ha plasmato modelli imitativi.
Dietro la maschera, rimaneva però il professionista. I racconti di redazione consegnano l’immagine di un direttore esigente, puntiglioso sulle aperture, sulle parole dei titoli, sul montaggio dei servizi. Un artigiano del prime time che, come tanti della sua generazione, costruiva la scaletta come si compone un giornale di carta: gerarchie chiare, tempi misurati, chiusura affidata a un editorialino che segnasse la giornata. Il fatto che, col passare degli anni, il formato abbia mostrato i suoi limiti non cancella ciò che ha rappresentato per una porzione di pubblico che si riconosceva in quel racconto del mondo.
Memorie private e fine di un’epoca
La vita privata di Emilio Fede è stata attraversata da un dolore profondo: la scomparsa della moglie Diana De Feo, giornalista e parlamentare, nel 2021, dopo quasi sessant’anni di matrimonio. Quel lutto lo ha segnato, rendendo più rare le uscite pubbliche e limando la spavalderia che lo aveva accompagnato per decenni. Negli ultimi anni ha vissuto in una RSA, raccontando di routine semplici, visite, ricordi. C’era in quelle interviste tarde una traccia di nostalgia per una televisione che non esiste più e che lui contribuì a plasmare: una tv in cui gli editori avevano nomi e cognomi, le redazioni erano famiglie combattive, i direttori — nel bene e nel male — ci mettevano la faccia.
La morte di Fede è, per questo, la fine di un immaginario. Chi è cresciuto negli anni Novanta ricorda i suoi speciali elettorali, i collegamenti con i cronisti dal Viminale, l’enfasi su un dato, su un trend, su una narrazione. Chi ha vissuto gli anni Duemila ricorda i dibattiti infiniti sul rapporto tra informazione e politica, tra tv e potere, tra linee editoriali e interessi industriali. Chi guarda oggi l’ecosistema digitale vede un panorama che ha altri padroni e altre logiche; ma alcuni tratti — la centralità del volto, la cura della recognisability, l’uso dell’editoriale come firma — portano ancora la sua impronta. Non è un’eredità neutra: è un’eredità contesa, come spesso accade per le figure che hanno diviso e mobilitato.
Perché il suo nome resta nel dibattito pubblico
Cosa ci lascia, dunque, Emilio Fede? Lascia intanto una lezione su identità e responsabilità nell’informazione televisiva. L’identità, quando è così forte, dà forza al prodotto e ne garantisce la fidelizzazione; ma porta con sé una responsabilità doppia: verso i fatti e verso il pubblico. Fede ha scelto una strada netta, spingendo sul commento e sulla posizione; ha coltivato la dimensione militante di un telegiornale, trasformandolo in marchio personale. È una scelta che gli ha garantito longevità e riconoscibilità; è anche la ragione per cui è stato oggetto di critiche durissime, soprattutto quando la cronaca incrociava gli interessi e i dossier più sensibili. La sua parabola ricorda che il giornalismo televisivo non è mai neutro: è fatto di scelte, di gerarchie, di parole e di silenzi, di inquadrature e di dettagli.
Lascia poi una riflessione su televisione e politica. Il TG4 degli anni di Fede non era solo un notiziario; era un attore politico che abitava il prime time, dialogava con partiti, orientava temi, fissava l’agenda per gli altri media. Si può giudicare questa contiguità in modi opposti, ma è difficile negare che abbia modellato la sfera pubblica. Nell’epoca dei social e dell’attention economy, quella miscela di notizia e narrazione appare oggi quasi ingegnosa: un telegiornale che capiva la competizione per l’attenzione e rispondeva con un protagonista forte, capace di mettere la propria reputazione come collante del racconto.
C’è infine un lascito umano: la determinazione di un professionista che, fino all’ultimo, ha difeso la propria versione dei fatti. Si possono criticare le scelte, contestare i toni, giudicare gli errori — e ci sono stati, anche gravi — ma rimane la coerenza di un carattere. In un’Italia che cambia rapidamente, Fede ha tenuto il punto: spesso oltre misura, spesso controvento, sempre alla luce del sole. Per alcuni, un pregio da ammirare; per altri, un difetto da rifiutare. Ma è proprio questa forza un po’ controcorrente a spiegare perché, alla notizia della sua morte, si riapra un confronto che va oltre la biografia e tocca il modo in cui immaginiamo l’informazione.
Un commiato che parla anche di noi
Salutare Emilio Fede significa anche salutare un’epoca della tv italiana: quella dei direttori-anchorman che divengono icone, delle redazioni compatte, dei palinsesti che una volta fissati sembravano eterni. Il suo nome resterà nel dibattito pubblico perché ha concentrato, nel bene e nel male, tensioni che ancora ci attraversano: tra oggettività e punto di vista, tra servizio e brand, tra cronaca e racconto. E resterà perché il TG4 “di Fede” è stato una scuola — una scuola contestata, certo, ma pur sempre una scuola — per chi ha capito che la televisione non è solo la somma delle notizie, ma un patto tra chi le racconta e chi le ascolta. Quando quel patto funziona, il telegiornale diventa memoria collettiva. Quando si rompe, diventa caso, discussione, talvolta ferita.
Nel ricordarlo oggi, l’immagine che rimane è il gesto della mano pronto a sottolineare una parola, il micro-sorriso a metà tra convinzione e sfida, il grazie pronunciato con tono basso prima del saluto. Dentro quelle abitudini c’era una filosofia intera: essere presenti, occupare lo spazio, trasformare la notizia in racconto e il racconto in legame. È ciò che molti hanno amato e altri hanno criticato. È ciò che, alla fine, lo rende una figura storica. E che spiega perché la sua morte non è solo la fine di una carriera, ma un promemoria su cosa chiediamo alla tv — e su come la tv, attraverso i suoi volti, continui a parlare di noi.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Il Fatto Quotidiano, La Repubblica, ANSA, Sky TG24, Corriere della Sera, Adnkronos.

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