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Edwige Fenech: molestie e carriera, cosa ha raccontato?

Edwige Fenech ha raccontato di aver subìto molestie all’inizio della carriera, in più occasioni, durante provini e incontri di lavoro. Ha spiegato di essersi difesa come poteva, anche fisicamente, e di non aver denunciato allora perché l’asimmetria di potere e il clima dell’epoca rendevano difficile essere credute, soprattutto per una giovane straniera appena arrivata nel cinema italiano. Non ha cercato clamore: ha inserito quel vissuto dentro la sua storia professionale, restituendo contesto e dinamiche concrete.
Il suo racconto è arrivato mentre la sua traiettoria di attrice e produttrice è tornata al centro dell’attenzione: un ritorno selettivo sul set, interviste pubbliche, la scelta di vivere all’estero da alcuni anni. La Fenech ha un profilo raro: icona popolare degli anni Settanta e, poi, manager dei contenuti in televisione. Proprio per questo le sue parole hanno un peso specifico: non sono un episodio isolato, ma un tassello nella lettura di come funzionavano i set e di quanto sia cambiato – o non sia cambiato – il lavoro nell’audiovisivo.
Dall’esordio alla popolarità: contesto, ruoli, immaginario
Nata il 24 dicembre 1948 a Bône (oggi Annaba), nell’allora Algeria francese, con padre maltese e madre italiana, Edwige Fenech cresce tra lingue e abitudini diverse. Arriva giovanissima a Roma, chiamata per un film che apre una corsia preferenziale nel mercato italiano. Nel giro di pochi anni diventa volto-simbolo della commedia popolare a tinte erotiche e dei gialli all’italiana, una stagione che ha definito l’immaginario di un Paese alle prese con modernizzazione, televisione commerciale e mutamenti di costume. La sua immagine non è solo un manifesto da locandina: è un dispositivo narrativo che parla di emancipazione e desiderio, ma anche di un’industria attratta dal corpo femminile come leva commerciale.
Il successo corre su due binari. Da una parte i gialli diretti da registi come Sergio Martino, dove il suo ruolo non è soltanto decorativo ma spesso motore del plot, con personaggi ambigui, fragili e insieme determinati. Dall’altra la commedia sexy all’italiana, in cui la Fenech incarna un erotismo ironico, a tratti burlesco, che catalizza pubblico e incassi. Le sale piene e le repliche televisive stratificano un’icona che, col tempo, esce dal pregiudizio del “genere minore”: resiste alle mode, viene citata, discussa, riconsiderata.
Dietro la superficie dei manifesti però c’è la meccanica del set. Ritmi serrati, budget spesso contenuti, ruoli creativi concentrati in poche mani, attese in uffici di produzione dove si decideva molto in fretta. È in quell’ecosistema che la Fenech colloca i suoi ricordi: avances non richieste, allusioni, inviti a “passare di là” prima di un sì o di un no. Non parla per categorie astratte; nomina pratiche, riti, zone grigie. E chiarisce che, pur sapendo difendersi, la capacità di opporre un rifiuto dipendeva dal contesto: chi decideva i cast, chi controllava i contratti, chi “poteva rovinare una carriera con una telefonata”.
Nonostante le frizioni, la macchina procede e lei consolida una filmografia ampia. Passa dalla suspense alla farsa con versatilità: una qualità che, negli anni successivi, diventerà una polizza assicurativa quando il mercato cambierà gusto. Il pubblico impara a riconoscerla e a fidarsi, gli esercenti la vogliono in cartellone, le tv generaliste – dagli anni Ottanta in poi – rigenerano il mito con cicli di prima e seconda serata. È qui che la sua immagine si fa davvero italiana: non solo star di un momento, ma presenza domestica, un volto che ritorna.
Molestie, potere e set: cosa emerge dal suo racconto
Il cuore della testimonianza riguarda come si manifestavano le molestie e perché era difficile fermarle. La Fenech descrive la fase dei provini come il momento più esposto: uffici stretti, appuntamenti fuori orario, la richiesta di “parlare con calma” lontano dalla produzione. In altre occasioni, gli episodi si consumavano a ridosso del set, sfruttando i tempi morti, le roulotte, gli spostamenti in auto. Il copione, per lei e per molte colleghe della stessa generazione, era simile: una combinazione di pressione psicologica e test fisici dei confini. La strategia di difesa? Mantenere il controllo della propria agenda, non restare mai sole, tagliare corto. Quando non bastava, reagire di scatto.
Perché non denunciare? All’epoca il sistema non offriva strumenti credibili. Andare in questura significava esporsi a diffidenza e a domande invasive; sul lavoro avrebbe potuto voler dire perdere ingaggi. Non si tratta di giustificare il silenzio, ma di raccontare un contesto: la parola di una giovane attrice valeva poco, soprattutto se non ancora “protetta” da un’agenzia influente o da un contratto blindato. La Fenech non generalizza, non dipinge tutti gli uomini di cinema come predatori. Distinguere è parte della sua postura: per ogni comportamento aggressivo, ricorda colleghi corretti, registi seri, produttori che difendevano le troupe. Ma il rischio, dice, era reale e ricorrente.
Quel che colpisce nel suo racconto è l’assenza di autocommiserazione. C’è il dolore per le occasioni vissute con paura, ma anche la lucidità di chi ha trasformato l’esperienza in criteri pratici: chiedere sempre chi c’è in stanza, farsi accompagnare, negoziare per iscritto. La testimonianza è utile alle attrici più giovani non per spettacolarizzare un trauma, ma per tradurre un vissuto in procedure. È un contributo concreto al lessico del lavoro: parole come consenso, supervisione, responsabile di set non appartenevano a quel tempo; oggi possono – e devono – entrare in ogni produzione.
In filigrana si legge un paradosso tutto italiano: a schermo, una donna disinibita, protagonista dello sguardo; fuori campo, una lavoratrice vulnerabile. La Fenech è stata l’una e l’altra. Ha interpretato personaggi costruiti sul desiderio maschile e, allo stesso tempo, ha preteso contratti chiari, rispetto dei ruoli, tempi professionali. Se quel paradosso oggi appare stridente, è perché abbiamo più strumenti per riconoscerlo. Il suo racconto aiuta a nominare il passato, senza riscriverlo a posteriori ma mettendone a fuoco le aree d’ombra.
Il cambio di passo: dall’attrice alla produttrice
A un certo punto, Edwige Fenech sposta l’asse della propria carriera dietro la macchina da presa. Entra nella produzione televisiva quando la fiction italiana sta cambiando pelle e le generaliste hanno fame di storie capaci di unire pubblico ampio e qualità di scrittura. Per lei non è un’operazione cosmetica: significa scegliere soggetti, valutare sceneggiature, difendere budget e casting, assumersi responsabilità sui risultati. La popolarità da attrice le apre porte, ma a mantenerle aperte è l’affidabilità con cui porta a termine i progetti.
Le sue produzioni intercettano temi quotidiani e personaggi femminili forti, spesso in contesti professionali: commesse, infermiere, madri, donne che una volta sarebbero state relegate ai margini del racconto. Il pubblico risponde, gli ascolti crescono, le serie entrano nel lessico familiare di un’Italia che guarda la tv in salotto. Si consolida così una seconda reputazione: non più soltanto diva, ma professionista che costruisce mondi. È la fase che, a distanza di anni, spiega la qualità e il peso del suo punto di vista: chi ha diretto attori, contrattato location, mediato con le reti, conosce la pragmatica del set. E sa quanto siano decisive regole chiare, catene di responsabilità, ambienti di lavoro presidiati.
Questo cambio di passo è anche una risposta personale alle criticità degli esordi. Prendere le redini vuol dire ridurre la vulnerabilità, creare team che tengono, pretendere codici di condotta. Non è un risarcimento simbolico; è ingegneria organizzativa applicata alla serialità. Qui la Fenech è più tecnica che nostalgica: parla di tempi di lavorazione, revisioni di sceneggiatura, relazioni con i broadcaster. È in questa concretezza che la sua storia diventa utile per chi oggi pensa di passare dalla recitazione alla produzione.
Gli anni recenti: ritorni selettivi e una nuova geografia personale
Negli ultimi anni, Edwige Fenech è tornata sul set per progetti scelti con attenzione. Dopo una lunga stagione da produttrice, ha accettato ruoli che non fossero soltanto omaggi alla sua icona, ma parti piene, coerenti con la maturità artistica raggiunta. Tra cinema d’autore e tv, la sua presenza è diventata evento misurato, non più frequenza. È un modo di esserci che racconta bene la sua filosofia di lavoro: è meglio poco e giusto che molto e casuale.
In parallelo, la Fenech ha ridisegnato la propria vita privata con un trasferimento a Lisbona avvenuto diversi anni fa. Una scelta che lei descrive come esigenza di cambio di ritmo, di città più leggera, di un clima umano e urbano capace di restituire spazio personale. Il trasferimento non coincide con un addio professionale; coincide con la libertà di scegliere dove e quando tornare, in base ai progetti e non all’inerzia. A raccontarlo è una donna che ha fatto del controllo del proprio tempo la risorsa più preziosa.
Chi l’ha incontrata in tv di recente ha ritrovato una Fenech serena e vigile, capace di parlarsi addosso senza compiacimento. Ha ripercorso i picchi di popolarità, i film rimasti nell’immaginario, la fatica di una stagione di lavoro che non perdonava cedimenti. Ha riconosciuto anche i punti opachi, rimettendo in fila le esperienze con l’intenzione di rendere utile quel racconto a chi, oggi, entra nell’audiovisivo. Non è un memoriale, non è una resa dei conti: è testimonianza.
Date e passaggi che aiutano a orientarsi
Per dare una cornice temporale, vale la pena fissare alcuni snodi. L’esordio da protagonista risale alla fine degli anni Sessanta, con la rapida affermazione nei gialli e nella commedia popolare dei primi anni Settanta. In quel decennio costruisce il grosso della propria filmografia, diventa volto da cassetta e presenza ricorrente nei palinsesti tv. Tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta avvia con decisione il percorso da produttrice, contribuendo alla stagione d’oro della fiction italiana generalista. Negli anni Duemila consolida il profilo industriale e seleziona le apparizioni da attrice, fino ai rientri mirati degli ultimi tempi, in cinema e televisione, che l’hanno riportata al centro del dibattito culturale e pop.
In diversi passaggi televisivi e in interviste sulla stampa, tra il 2023 e il 2025, la Fenech ha messo in chiaro il tema delle molestie e la logica di sistema che le ha rese possibili: provini fuori norma, potere accentrato, assenza di interfacce terze. Ha spiegato perché non denunciò: tempi diversi, fiducia istituzionale scarsa, rischio di ritorsioni professionali. È un racconto che non pretende di valere per tutte, ma che offre elementi verificabili a chi studia l’industria culturale. In mezzo, un dettaglio personale che la dice lunga sul carattere: davanti a un’aggressione, ha reagito, si è difesa, ha spezzato la dinamica prima che diventasse irrimediabile.
Nel frattempo, la sua biografia professionale ha preso una piega che conta per capire il suo sguardo: portare a casa una serie significa coordinare reparti, leggere i dati, mediare con le reti, tenere il timone quando il mare si fa mosso. Chi ha fatto questo lavoro sa che la differenza tra un set sano e un set tossico è fatta di protocolli e persone giuste al posto giusto. La Fenech lo ripete con naturalezza: non basta indignarsi, occorre costruire condizioni. È una bussola che vale anche per i grandi nomi: non è la notorietà a garantire sicurezza, ma regole visibili e responsabilità tracciabili.
Che cosa resta davvero, qui e ora
Resta innanzitutto la sostanza del racconto: Edwige Fenech ha subìto molestie agli esordi e ha scelto di parlarne senza sovratoni, offrendo elementi utili a chi oggi pretende set più sicuri. Resta poi la traiettoria professionale: il passaggio da attrice di enorme popolarità a produttrice capace di orientare storie e budget, un doppio sguardo – artistico e industriale – che rende più autorevole la sua voce. Resta infine una posizione concreta sul presente: evitare letture manichee, adottare strumenti di prevenzione, responsabilizzare chi decide, credere alle segnalazioni e gestirle con procedure che proteggano le persone e il lavoro.
Il valore per i lettori italiani è nella utilità pratica di questa testimonianza. Non c’è il gusto per il dettaglio scandalistico, c’è la mappatura di un sistema: dove avvenivano gli abusi, come si fronteggiavano, perché non emergono subito, che cosa può impedire che accadano di nuovo. È un tassello in un processo più ampio che riguarda tutte le professioni dello spettacolo, non solo il cinema: dai casting alla post-produzione, passando per uffici stampa, rappresentanze, piattaforme. Le soluzioni esistono e non sono astratte: figure di riferimento sui set, contratti che tutelino, formazione obbligatoria, canali protetti per segnalare e intervenire.
A livello narrativo, la Fenech continua a essere un case study italiano: come si attraversa mezzo secolo di immaginario senza restare prigionieri del proprio personaggio; come si tiene insieme popolarità e mestiere; come si trasforma l’esperienza, anche dolorosa, in cultura organizzativa. Che sia davanti alla macchina da presa o dietro, la costante è la stessa: professionalità. È questo, più di ogni altra cosa, a spiegare la persistenza del suo nome nel nostro lessico culturale.
Titoli e immagini che raccontano un Paese
Molti italiani conoscono Edwige Fenech attraverso fotogrammi iconici, locandine, passaggi televisivi. Quei titoli, spesso liquidati con l’etichetta sbrigativa di “commedia sexy”, appartengono a una fase storica complessa: pubblico enorme, censura in ritirata, registi che sperimentano in un territorio dove il confine tra ironia, costume e ammiccamento commerciale è sottile. Rileggere oggi quei film alla luce del suo racconto non serve a processare il passato, ma a capire come certi automatismi di potere non nascano dal nulla: camminano sulle prassi e sulle zone franche dove il non detto prolifera.
C’è poi la riconversione televisiva: anni di set dove si costruisce una grammatica popolare nuova, fatta di miniserie evento e serialità lunga, con personaggi femminili al centro. Lì la sua cifra si affina: ascolto del pubblico, cura del dettaglio produttivo, severità sul risultato. Nei corridoi delle reti si ricorda la concretezza con cui difendeva le scelte, la pazienza sulle riscritture, la tigna nel far quadrare i conti senza sacrificare l’idea. Sono elementi che, messi in fila, restituiscono il profilo di una professionista che non ha mai separato arte e mestiere.
Una voce che pesa ancora nei corridoi dell’audiovisivo
Oggi, quando Edwige Fenech prende parola, lo fa da una posizione particolare: non cerca ruoli, non deve ottenere favori, non insegue un ciclo di promozione. Questa libertà la rende più credibile nel nominare i nodi del settore. Parla di provini tracciati, di stanze con porte aperte, di linee di escalation chiare quando qualcosa non va. È un lessico che piace poco a chi confonde l’autorevolezza con l’arbitrio; ma è proprio quel lessico a misurare la maturità di un’industria.
Nel tempo, la sua è diventata anche una memoria condivisa. Colleghi e colleghe di generazioni diverse riconoscono in lei la cartina al tornasole di un’epoca e la testimonianza viva di come si possa uscire da un’etichetta senza rinnegare nulla. Resta la diva che il pubblico ama citare, ma è anche la produttrice severa che ha saputo far funzionare storie popolari. La somma delle due cose fa la differenza: autorità senza retorica.
La traiettoria di una professionista italiana
Se si dovesse trattenere un’immagine sintetica, sarebbe questa: Edwige Fenech come professionista che ha governato la propria immagine, senza farsene travolgere. Ha recitato in film che hanno fatto epoca e, quando ha avvertito il bisogno di cambiare, ha spostato il baricentro. Ha attraversato contesti ostili, si è difesa, ha imparato a mettere in sicurezza il proprio lavoro. Oggi, nel raccontarlo, non cerca risarcimenti morali: offre istruzioni per l’uso a chi vive lo spettacolo nel presente.
Il punto, per i lettori italiani, è tutto qui. Cosa ha raccontato? Che all’inizio ha subìto molestie e che si è difesa. Che non ha denunciato perché il sistema non la proteggeva. Che poi ha imparato a proteggersi non da sola, ma cambiando le regole del gioco quando ha potuto: in produzione, in scrittura, nelle scelte dei team. Che oggi vive dove ha deciso di vivere e lavora quando il progetto la convince. È un messaggio operativo, più che emotivo: si può intervenire sul modo in cui si fanno i film e le serie, si possono alzare gli standard, si può costruire un’industria migliore. E a dirlo è una donna che ha visto tutto da vicino, in tutte le posizioni che contano.
🔎 Contenuto Verificato ✔️
Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Il Fatto Quotidiano, Mediaset Infinity, Corriere della Sera, RaiPlay, Movieplayer, Rolling Stone Italia.

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