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Addio a Furio Focolari, chi era il famoso giornalista Rai

Furio Focolari è morto a 78 anni: dalla Rai a Radio Radio, la voce dei trionfi di Tomba e cuore biancoceleste. Ritratto, carriera e ricordi.
È morto Furio Focolari, giornalista sportivo e voce storica tra Rai e Radio Radio, a 78 anni. Si è spento domenica 28 settembre 2025 a Roma, dopo una malattia che negli ultimi mesi ne aveva fiaccato il fisico senza intaccare lucidità e ironia. La notizia è stata resa nota all’alba di una domenica di sport che, stavolta, ha iniziato a scorrere a volume più basso. Per generazioni di spettatori e ascoltatori, il suo timbro era sinonimo di neve azzurra, Olimpiadi, Mondiali e del romanzo sportivo di Alberto Tomba, raccontato con competenza e misura.
Nato nel 1947, romano con radici sabine, Focolari ha attraversato mezzo secolo di informazione cambiando mezzi ma non metodo: prima la notizia, poi l’opinione, mai il contrario. Ha fatto scuola in Rai con lo sci e con il calcio, ha consolidato una seconda vita professionale in diretta a Radio Radio, dove la sua identità di laziale dichiarato conviveva con la disciplina del cronista che distingue tra tifo e analisi. La sua scomparsa chiude una stagione del giornalismo sportivo italiano e ne riapre il dibattito: che cosa voglia dire, oggi, raccontare lo sport con rigore e umanità.
Chi era: profilo essenziale
Professionista dal 1972, Focolari ha fatto gavetta nella carta stampata e poi il salto al microfono, dove ha trovato la dimensione naturale del suo racconto. Negli anni della Rai, quando l’offerta tv era più scarna e il Paese si fermava per un’intermedia in Coppa del Mondo, ha imparato a dosare i tempi: lasciar parlare l’azione, cucire i dati in frasi nette, evitare l’effetto tromba. La sua romanità non è mai stata vezzo: era ritmo, un certo modo di stare al mondo del giornalismo senza alzare la voce, ma tenendo il punto.
La biografia personale si intreccia con un contesto familiare intriso di giornali e di impegno civile. Il padre, Lorenzo, fu dirigente locale e uomo di stampa, con passaggi alla guida del quotidiano del PSDI “L’Umanità” e una lunga stagione amministrativa a Pozzaglia Sabina. È lì che si situano le radici della famiglia, mentre la formazione professionale di Furio matura nell’Urbe, tra redazioni e palinsesti che cambiano volto ma chiedono sempre la stessa cosa: notizie affidabili raccontate bene.
Tra i tratti distintivi, un’attenzione quasi maniacale per la preparazione. Che fosse neve o pallone, presentarsi in diretta significava arrivare prima: posizioni, materiali, briefing tecnici con chi conosce la disciplina dall’interno, scalette ordinate fino all’ossessione. È un dettaglio che tanti colleghi ricordano con gratitudine: l’artigianato del giornalismo vissuto come atto quotidiano, non come posa.
Dalle cronache alle nevi: gli anni Rai e l’epopea di Tomba
La popolarità nazionale di Focolari esplode tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando lo sci trova in tv una dignità narrativa meno didascalica e più partecipata. In cabina con gli ex campioni e con i tecnici di pista, Focolari affina un tono che diventa signature: poche parole, giuste, messe a tempo con l’azione. Il risultato è un racconto pulito, in cui lo spettatore non viene travolto dal lessico specialistico, ma accompagnato dentro la complessità della gara.
È il tempo di Alberto Tomba, di seconde manche vissute con il fiato corto, di cronache che entrano nei salotti di un’Italia che soffre e gioisce a ogni intermedio. Calgary, Albertville, Lillehammer, Coppa del Mondo e Mondiali: scivola via una stagione irripetibile dello sport italiano e la voce di Focolari si fissa nella memoria collettiva. Non è solo questione di telecronaca: è misura. La capacità di capire quando tacere e quando spiegare, di distinguere l’errore tecnico dall’emozione, di valorizzare il contributo della spalla tecnica senza sovrapporsi. È così che quel binomio – Tomba in pista, Focolari in cuffia – diventa patrimonio condiviso.
Lavorando da inviato, Focolari aggiunge chilometri alla sua idea di mestiere. Zona mista, traguardi, allenamenti, la dialettica con l’atleta e con i tecnici: costruisce una banca dati personale fatta di rituali, attese, dettagli. Per questo il suo modo di raccontare non si riduce mai allo spettacolo; al contrario, rende intellegibile ciò che la tv, da sola, non mostra. E quando la gara finisce, non c’è bisogno di enfasi: i dati parlano, il tono resta misurato, l’analisi arriva in chiaro.
La frattura con la Rai e il dopo: cause, reintegro e nuove strade
Nel 1996 la traiettoria professionale di Focolari subisce una rottura. La Rai lo licenzia e il caso si trascina per anni nelle aule di tribunale. In gioco non c’è solo una carriera, ma un principio: come si licenzia un giornalista e con quali limiti. La vicenda si chiude con una vittoria giudiziaria che sancisce l’illegittimità del provvedimento e riconosce a Focolari un ulteriore risarcimento per il carattere “ingiurioso” dell’atto. È un precedente che, negli archivi del settore, viene citato quando si parla di tutele e di procedura.
Quell’episodio, durissimo sul piano personale, non lo spegne. Anzi, lo rilancia in forme nuove. Meno cabina di commento, più studio e opinione; meno neve, più microfoni cittadini; una parentesi anche come referente nell’industria dell’abbigliamento sportivo. È la stagione in cui lo sport in radio torna piazza, contraddittorio vivo e confronto quotidiano. Lontano dalle logiche del servizio pubblico, Focolari accetta il rischio del dibattito acceso, dell’impopolarità quando serve, rifuggendo il cerchiobottismo. Da qui in poi, per molti, diventa “Focolari di Radio Radio”, immediatamente riconoscibile a orecchio.
I documenti e le interviste rilasciate negli anni successivi lo raccontano sereno nel giudizio su quella frattura: rivendica di aver difeso il proprio onore professionale senza cedere al rancore, di aver trasformato una caduta in opportunità. È un tratto che lo ha reso punto di riferimento per colleghi più giovani in cerca di coordinate in un ecosistema mediatico sempre più rapido.
Radio Radio e l’identità romana: la voce, il tifo, l’opinionista
Radio Radio è il luogo in cui Focolari trova una seconda casa e un’identità compiuta. Il formato in diretta, il confronto tra opinionisti e ascoltatori, le linee aperte e i tempi stretti esaltano la sua capacità di stare in scena senza fare scena. Laziale fino al midollo, non ha mai mascherato la propria fede biancoceleste, ma neppure l’ha usata come scudo: la Lazio l’ha criticata quando andava criticata, difesa quando c’era da difendere una scelta tecnica coerente o una linea societaria sensata.
Nello studio romano dove passano dirigenti, allenatori, calciatori, ha difeso una forma di giornalismo che separa il dato dall’umore, l’analisi dalla provocazione gratuita. Se serviva essere ruvido, non si tirava indietro; se bastava un’ironia per sgonfiare la bolla, la usava con mestiere. Il pubblico lo stimava proprio per questa schiettezza regolata: poche concessioni al tifo urlato, molti richiami alla precisione. E chi ci lavorava insieme sottolinea la disciplina con cui pretendeva fonti, riscontri, verbi al tempo giusto.
La stagione finale, segnata dalla malattia, ha avuto in Radio Radio il suo diario di bordo. Qualche assenza in più, la voce che cambiava, ma la testa accesa e la voglia di esserci, finché è stato possibile. L’annuncio della scomparsa è arrivato dalla stessa emittente, con parole semplici e piene, a confermare un legame che era allo stesso tempo professionale e umano.
Vita privata e radici: famiglia, origini, legami
La vita privata di Focolari è sempre rimasta un passo indietro rispetto alla scena, protetta dal pudore di chi ritiene il mestiere una funzione pubblica ma non una vetrina. Eppure, per capire l’uomo, contano le radici. La famiglia è originaria di Pozzaglia Sabina, dove il padre Lorenzo ha intrecciato giornalismo e amministrazione locale. A Roma, la città dell’adolescenza e del lavoro, Focolari ha costruito relazioni solide con redazioni, tecnici, dirigenti e una generazione di giornalisti cresciuta guardando i suoi rientri di linea.
Il fratello Avio ha scelto la musica, con un album dedicato alla Lazio dello scudetto 1999-2000: un gioco di contrasti affettuoso, visto che Avio è romanista dichiarato. È un’immagine che restituisce bene lo spirito della famiglia: il calcio divide e unisce, e a Roma è possibile volersi bene anche stando su curve opposte. Nel solco professionale di Furio cammina la figlia Veronica, volto televisivo che ha trovato casa in redazioni nazionali, a conferma di una tradizione di famiglia che continua.
Nelle ultime settimane, chi l’ha incontrato racconta un uomo lucido. Non amava la spettacolarizzazione del dolore, e il suo congedo è stato sobrio: amici stretti, colleghi di una vita, silenzi senza pathos. È un finale coerente con ciò che ha insegnato: la parola pesa; se non serve, meglio toglierla.
Stile e insegnamenti: cosa lascia al giornalismo sportivo
Se si dovesse sintetizzare l’eredità professionale di Furio Focolari, quattro parole basterebbero: notizia, misura, chiarezza, responsabilità. La notizia viene prima: in diretta non si improvvisa, si verifica. La misura è un valore: evitare la retorica, lasciare che siano i tempi di gara a comandare. La chiarezza è un dovere: spiegare la tecnica senza complicarla, usare un lessico comprensibile anche a chi non vive la disciplina. La responsabilità è la stella polare: ogni parola detta in cuffia resta.
A queste si aggiunge un quinto tratto, più umano che tecnico: l’empatia controllata. Focolari ha sempre tenuto il giusto distacco dai campioni senza ridurli a personaggi; li ha trattati da professionisti, riconoscendo meriti e limiti. Ha imposto a sé stesso la regola del dubbio anche quando la piazza chiedeva certezze immediate. E quando sbagliava, come capita in ogni carriera lunga, chiariva e ripartiva, senza atteggiarsi a vittima o a genio incompreso.
Nel curriculum non c’è soltanto lo sci. Chi lo segue ricorda l’esperienza del 9 maggio 1978, quando a Via Caetani il Paese venne schiantato dalla notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Un frammento di storia che lo segnò e lo rese, per sempre, giornalista a tutto tondo. È lì che si forma l’idea che porterà nello sport: prima i fatti, poi il resto.
La stessa filosofia lo ha guidato quando il mestiere è cambiato, tra social, second screen e clip da dieci secondi. Ai giovani spiegava che viralità e autorevolezza non sono sinonimi, che la fretta non può sostituire il controllo. Non era un nostalgico: accettava il nuovo, ma pretendeva che nel nuovo restassero le regole base del giornalismo.
Un congedo che pesa sulla comunità sportiva
La morte di Focolari colpisce tre comunità. La prima è quella degli appassionati di sci, che in lui hanno avuto il traduttore più affidabile dell’epopea di Tomba e di una generazione di atleti azzurri. La seconda è la radio di opinione, che perde un padrone dei tempi capace di tenere campo senza urlare. La terza è Roma sportiva, dove la sua lazialità era un colore identitario tenuto a bada dall’etica professionale. In tutte e tre, il vuoto è misurabile.
Nelle ore successive alla notizia, il cordoglio ha attraversato federazioni, emittenti, ex compagni di cabina, avversari dialettici di studio. Amici e “avversari” gli hanno riconosciuto onestà intellettuale e passione. Non è un automatismo postumo: è il raccolto di una coerenza che, specie in una città come Roma, la comunità finisce per riconoscere. Il rispetto, anche quando non si condivide, non si improvvisa.
Chi oggi entra in una cabina tv o si siede davanti a un microfono radiofonico dovrebbe portare con sé due lezioni che Focolari ha consegnato, più coi fatti che con le parole. La prima: il protagonista è l’evento, non la tua voce. La seconda: il pubblico capisce, se lo rispetti con spiegazioni precise e parole pesate. Sembrano ovvietà; in realtà sono discipline.
Il saluto di un Paese che ha riconosciuto quella voce
L’addio a Furio Focolari non è un rito di circostanza. È il riconoscimento di un modo di stare in diretta che ha unito platee diverse. È morto Furio Focolari, e a molti tornerà in mente il rumore secco delle lamine prima del traguardo e una voce che non spingeva, accompagnava. A chi lo ha ascoltato in radio resterà la fermezza calma con cui metteva in fila dati e impressioni. Agli addetti ai lavori resterà un manuale di artigianato: prepararsi, verificare, tagliare gli aggettivi e lasciare lo spazio giusto ai silenzi.
Resteranno anche le radici: Roma, la Sabina, la Lazio come fede sportiva mai barattata con l’accondiscendenza. Resterà una famiglia che ha fatto dell’informazione una lingua comune, e tanti colleghi cresciuti anche grazie a uno sguardo esigente ma generoso. Resterà, soprattutto, un’idea semplice e forte di servizio al pubblico: raccontare lo sport perché è cultura popolare, memoria collettiva, gioco serio. In un tempo che corre, questa idea continuerà a battere. E, in fondo, basterà alzare l’audio dei ricordi per sentire ancora quella cadenza: calda, precisa, rispettosa
🔎 Contenuto Verificato ✔️
Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: La Gazzetta dello Sport, la Repubblica, Corriere della Sera, LaPresse, SportMediaset, La Sentinella del Canavese.

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