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Di cosa è morto D’Angelo? Addio a un artista formidabile

È morto D’Angelo, all’anagrafe Michael Eugene Archer, a 51 anni, martedì 14 ottobre 2025, a New York. La causa del decesso è un cancro al pancreas, malattia contro cui l’artista combatteva da tempo e che, nelle ultime settimane, lo aveva costretto in hospice dopo un lungo periodo di ricovero. La famiglia, in una nota, ha chiesto riservatezza e ha invitato fan e colleghi a celebrarne l’eredità musicale: un archivio non sterminato per quantità, ma decisivo per profondità e influenza.
La notizia ha attraversato l’industria in pochi minuti, provocando una scia di tributi da ogni angolo della musica nera e non solo. Se ne va la voce simbolo del neo-soul, architetto di un suono che ha unito gospel, funk, R&B e hip hop con una cura maniacale per il tempo e il timbro. Con tre soli album in studio — “Brown Sugar” (1995), “Voodoo” (2000) e “Black Messiah” (2014) — D’Angelo ha imposto un canone. Ed era tornato nell’immaginario recente con “I Want You Forever” (2024), una suite di quasi dieci minuti insieme a JAY-Z per la colonna sonora di The Book of Clarence, ultimo brano pubblicato in vita. Lascia tre figli e un’eredità artistica che oggi suona più attuale che mai.
La notizia, i fatti, il contesto
D’Angelo è scomparso nel primo pomeriggio di martedì 14 ottobre. Il tumore al pancreas — tra le forme oncologiche più aggressive — era stato trattato nel massimo riserbo, secondo una prassi che aveva finito per definire anche il suo modo di stare nella sfera pubblica: pochi annunci, zero clamore, solo musica quando riteneva che fosse pronta. Nei mesi precedenti, segni indiretti avevano rivelato una salute fragile: a fine maggio aveva cancellato da headliner il Roots Picnic di Philadelphia per un ritardo imprevisto nel recupero da un intervento chirurgico. Un indizio raro, poi il silenzio. La morte è arrivata a New York, città a lui cara anche per la lunga stagione passata dentro Electric Lady Studios, la casa di Jimi Hendrix che D’Angelo aveva trasformato nel proprio laboratorio creativo.
Accanto a lui, in queste settimane, c’erano i familiari. Il figlio maggiore, Michael Jr. (conosciuto come Swayvo Twain), avuto con la cantante Angie Stone, la figlia Imani e il più giovane Morocco. Il dolore della famiglia è aggravato dalla scomparsa della stessa Angie Stone all’inizio del 2025, in seguito a un incidente stradale, che ha colpito profondamente l’intera comunità R&B. Proprio il legame con Stone — voce e penna cruciale degli anni Duemila — racconta una parte dell’uomo oltre l’icona: padre attento, musicista esigente, credente cresciuto tra i banchi di chiesa che ha sempre cercato un equilibrio tra gloria e intimità.
Origini e formazione: Richmond, la chiesa, la prima officina del suono
D’Angelo nasce a Richmond, Virginia, l’11 febbraio 1974, figlio di un pastore pentecostale. La sua educazione musicale comincia lì, dove il piano non è un oggetto d’arredo ma uno strumento di culto; dove la voce non cerca la performance ma la trascendenza. È il contesto che gli insegna un lessico: accordi pieni, falsetti sobri, dinamiche più sussurrate che urlate, l’arte di ascoltare prima ancora che suonare.
Da adolescente adotta il nome d’arte D’Angelo e mette insieme le prime band con i cugini. L’episodio fondativo, spesso ricordato da lui stesso, è la Amateur Night dell’Apollo Theater a Harlem: prima ci prova, poi vince e porta a casa il denaro sufficiente per comprare un quattro piste. È il seme di una scrittura che nasce in cameretta e si affina in studio. A vent’anni firma e co-produce “U Will Know” per Black Men United, super-formazione R&B che finisce nella colonna sonora di Jason’s Lyric (1994). L’industria si accorge di lui: sa scrivere, suonare, produrre e tenere insieme influenze diverse con un’intuizione rara per gli spostamenti microscopici del ritmo.
Tre album, un canone: come D’Angelo ha cambiato il soul moderno
Il debutto arriva nel 1995 con “Brown Sugar”. L’album si muove su un asse semplice e radicale: bassi caldi, batterie elastiche, Rhodes e Wurlitzer come colori di base, una voce che non spinge ma accarezza. Brani come “Brown Sugar”, “Lady”, “Cruisin’” e “Me and Those Dreamin’ Eyes of Mine” impongono un R&B adulto, modernissimo, lontano dalla plastica delle programmazioni più aggressive dell’epoca. È un successo che porta D’Angelo nel mainstream senza costringerlo a tradire la propria grammatica.
Il secondo capitolo, “Voodoo” (2000), è il disco che sposta davvero l’asse della musica nera contemporanea. Il cantiere è Electric Lady Studios. Intorno a lui ruota la costellazione dei Soulquarians: Questlove, Pino Palladino, Roy Hargrove, James Poyser, J Dilla, Q-Tip, Common, Erykah Badu. Gente che entra ed esce, jam notturne, nastri che girano, la scelta di registrare strumenti veri come se fossero campioni. Nascono così “Devil’s Pie” (con DJ Premier), “Spanish Joint”, “The Root”, “One Mo’ Gin” e soprattutto “Untitled (How Does It Feel)”, tributo esplicito a Prince. Il video firmato Paul Hunter — una sola inquadratura, la camera addosso, il corpo maschile al centro dello sguardo — diventa un fenomeno pop e culturale. Voodoo debutta al n.1 negli Stati Uniti e si porta a casa due Grammy (miglior album R&B e miglior interpretazione vocale R&B maschile).
Poi il silenzio lungo. Problemi personali, un rapporto complicato con la fama e con l’immagine da sex symbol regalata da “Untitled”, incidenti, alcol e droga: la traiettoria pubblica si assottiglia, quella artistica riprende fiato lontano dai riflettori. Bisogna aspettare dicembre 2014 per il ritorno con “Black Messiah”, accreditato a D’Angelo and The Vanguard. È un album politico, pubblicato a sorpresa in un’America agitata dalle proteste per i diritti civili: chitarre e batterie gonfie, archi che accarezzano, testi densi. Vince due Grammy (tra cui miglior album R&B e miglior canzone R&B per “Really Love”) e rimette D’Angelo al centro, dimostrando che la sua idea di suono umano, imperfetto e analogico può ancora dettare legge nell’epoca degli stream.
Negli anni successivi, il profilo rimane schivo: poche apparizioni, VERZUZ all’Apollo Theater nel 2021 — una celebrazione del repertorio più che una sfida — e poi la lunga attesa per un presunto quarto album, confermata da voci di studio e dichiarazioni di Raphael Saadiq che raccontava un D’Angelo “in un’ottima fase”. Nel gennaio 2024 arriva la collaborazione con JAY-Z su “I Want You Forever”, brano di quasi dieci minuti costruito per strati, voce e mantra, orchestrazione e groove lento, una epifania che, ascoltata oggi, suona come swan song.
Collaborazioni, palchi e cantiere Soulquarians
Capire D’Angelo significa osservare come stava con gli altri. Il suo talento non era solo quello di cantare e suonare, ma di creare un campo magnetico dove le idee altrui, miscelate con le proprie, diventavano forme nuove. È ciò che accade a Electric Lady tra il 1999 e il 2001: un flusso ininterrotto in cui The Roots registrano, Erykah Badu passa ad ascoltare e lascia una melodia, Common mette giù una strofa, Q-Tip discute di arrangiamenti, J Dilla suggerisce un feel di batteria, Roy Hargrove scrive fiati che sembrano respirare. Il risultato è la firma sonora dei Soulquarians: batterie “sloppy” in levare, bassi gommosi, chitarre legnose, Rhodes granulosi, micro-sincopi che piegano il tempo senza spezzarlo.
Le collaborazioni raccontano la stessa storia da altre angolazioni. C’è il duetto del 1998 con Lauryn Hill in “Nothing Even Matters”, ballata scolpita con pazienza. C’è l’incontro con DJ Premier su “Devil’s Pie”, pezzo nato hip hop e poi cresciuto dentro Voodoo. C’è l’episodio per il videogioco Red Dead Redemption 2 con “Unshaken” (2019), spirituale laico e crepuscolare che ha fatto scoprire D’Angelo a una generazione di ascoltatori lontana dagli stereo di fine anni Novanta. C’è, infine, la già citata VERZUZ del 2021 all’Apollo, formula atipica — D’Angelo & Friends — con ospiti a sorpresa, tra cui H.E.R., Method Man e Redman. Ogni volta il filo rosso è il perfezionismo: pubblicare poco, lavorare molto, pretendere che ogni batteria respiri, che ogni basso canti, che la voce rimanga umana anche quando sfiora la perfezione.
Tecnica, estetica, impatto: la cerniera tra il ’70 e il presente
Se c’è un nucleo duro nell’arte di D’Angelo, è il suo rapporto con il tempo. Non il calendario (che pure scandisce 14 anni tra Voodoo e Black Messiah), ma il tempo musicale: spostamenti millimetrici dietro al click, backbeat che fuma in controluce, incastri tra batteria e basso che non stanno mai esattamente sul metronomo. È qui che D’Angelo ha fatto da cerniera storica: ha preso il soul anni Settanta — Donny Hathaway, Marvin Gaye, Sly & The Family Stone, Curtis Mayfield — e lo ha attraversato con la metrica dell’hip hop, rifiutando la rigidità digitale in favore di un swing nuovo, sporco nel senso più nobile.
Il secondo pilastro è la voce. Quel falsetto trattenuto, gli attacchi quasi soffiati, la scelta di non strafare neppure quando la melodia lo consentirebbe. D’Angelo ha dimostrato che il bisbiglio può bruciare quanto un acuto, che un glissando può raccontare più di una sgranata di note. È una poetica che ha generato legioni di epigoni, dal soul più raffinato al R&B d’autore, fino all’hip hop che ha imparato a usare strumenti veri dove prima c’erano solo campioni. In mezzo, c’è anche un discorso politico: “Black Messiah” è un album civile, capace di parlare di comunità, ingiustizie, identità senza schemi, con canzoni che non sono slogan ma narrazioni.
Il terzo elemento, spesso frainteso, è il corpo. Il video di “Untitled (How Does It Feel)” ha ribaltato lo sguardo sul maschile nero nel pop — non oggetto imposto ma soggetto del desiderio. Quella esposizione lo ha reso un’icona ma ha prodotto anche contraccolpi personali: il peso di un’immagine da mantenere, la fatica di essere visto più per i muscoli che per gli accordi. La successiva ritirata dalle scene e la ricomparsa con “Black Messiah” sono anche la storia di un artista che ha voluto riprendersi il controllo su tempo, suono e immagine.
Cosa ascoltare adesso: una guida ragionata, senza salti
Per chi vuole entrare o rientrare nel mondo di D’Angelo, l’itinerario migliore non è una playlist casuale, ma un percorso che faccia emergere scrittura, voce, suono e band.
Si parte da “Brown Sugar” (album): l’omonimo brano è un manifesto di groove disteso, basso rotondo e tastiere che velano la luce. “Lady” mostra la capacità di costruire melodie immediatamente riconoscibili senza rinunciare a finezza armonica. “Me and Those Dreamin’ Eyes of Mine” restituisce il romanticismo adulto, con accordi da manuale del soul. Per capire l’artigiano oltre l’icona, vale il live: “Live at the Jazz Café, London: The Complete Show” (registrato nel 1995, ripubblicato integralmente nel 2014) fa respirare le canzoni, allunga i finali, apre spazi agli strumenti e mette in risalto la band con Angie Stone ai cori. Qui “Cruisin’” — cover di Smokey Robinson — diventa un lento magnetico, flusso continuo più che brano.
Si prosegue con “Voodoo”. L’ingresso consigliato è “Devil’s Pie”: batteria dritta, basso gommoso, produzione di DJ Premier che porta il mondo hip hop nel cuore di un disco organico. Subito dopo, “The Root” per ascoltare come chitarre e batteria possano dialogare in controluce, e “Spanish Joint” per un saggio di funk latino con i fiati che disegnano arabeschi. Il momento iconico resta “Untitled (How Does It Feel)”: già nella versione in studio, ma ancor più dal vivo — come all’Apollo Theater, quando la canzone si dilata e resta sospesa sull’ultimo vibrato. È la traccia che ha cambiato la percezione di D’Angelo dentro e fuori la musica.
L’ultimo capitolo dell’album-percorso è “Black Messiah”. Qui conviene partire da “Ain’t That Easy”, passare per “1000 Deaths” — dove chitarre e batteria scavano nel fango come in un collettivo rock-soul — e fermarsi a lungo su “Really Love”, una serenata moderna con archi e chitarra flamenca che racconta quanto il suo romanticismo sia diverso da quello radiofonico. Si chiude con “Another Life”, preghiera crepuscolare sorretta da un piano appena sfiorato e da una voce che guarda all’aldilà del groove. Per chi vuole completare il quadro con le laterali: “Unshaken” (2019), spirituale laico scritto con Daniel Lanois per Red Dead Redemption 2, e “I Want You Forever” (2024), una dichiarazione sospesa dove la ripetizione diventa ipnosi e il verso di JAY-Z entra come contrappunto umano.
Fatti, numeri e riconoscimenti: il peso di un catalogo breve
Al netto della parsimonia discografica, i riconoscimenti sono netti. D’Angelo ha collezionato quattordici nomination ai Grammy e ha vinto quattro volte: due nel 2001 grazie a “Voodoo” (miglior album R&B) e “Untitled (How Does It Feel)” (miglior interpretazione vocale R&B maschile), due nel 2016 con “Black Messiah” (miglior album R&B) e “Really Love” (miglior canzone R&B). “Brown Sugar” è entrato stabilmente tra i classici degli anni Novanta, “Voodoo” è citato come album-scuola per chiunque voglia capire come tenere indietro il colpo senza perdere spinta, “Black Messiah” è diventato un riferimento per il R&B contemporaneo che non rinuncia alla scrittura e alla dimensione politica.
Oltre i premi, resta la prova dei palchi. D’Angelo è passato da club fumosi a teatri storici, guidando band con mano ferma, spesso da dietro il piano. I concerti del 2015 dopo l’uscita di “Black Messiah” hanno mostrato la versione più concertante della sua musica, con arrangiamenti che respirano e code che trasformano i brani in suite. La serata VERZUZ del 2021 all’Apollo ha avuto il sapore della restituzione: niente gara, solo catalogo e amicizie a incastrarsi su un repertorio che — a distanza di anni — suona intatto.
Curiosità e chicche d’autore: retroscena che spiegano l’opera
Dietro la mitologia del genio schivo, c’era un artigiano con una disciplina ferrea. In studio D’Angelo amava sovraincidere strumenti e risuonare parti per cercare la respirazione giusta del brano. Con Questlove studiava bootleg di James Brown e Sly & The Family Stone, poi rientrava su cassa e rullante con l’obiettivo di suonare come un campione: un pelo dietro il click, micro-anticipi del basso, interazione costante tra strumenti e aria. È il famoso “D’Angelo feel”, un modo di stare sul tempo che milioni di musicisti hanno provato a imitare, spesso senza coglierne la filosofia: non è ritardo, è equilibrio dinamico fra spinta e trattenuta.
Curiosa è anche la genesi di “Devil’s Pie”: nasce per il cinema — finisce nella colonna sonora di Belly (1998) — e porta la firma di DJ Premier, ponte diretto tra il boom bap e l’universo soul di D’Angelo. “Spanish Joint”, invece, mostra come l’artista sapesse incrociare jazz, funk e latino con fiati scolpiti e una chitarra che danza tra stacchi e arpeggi. E poi il video di “Untitled”: girato su un set spoglio, camera fissa, luce che scolpisce il torso e un crocefisso al collo, un simbolo che unisce carne e spirito, cifra che attraversa tutta la sua opera.
Infine, la riservatezza. D’Angelo non ha mai gonfiato il rumore attorno a sé, anzi: l’ha ridotto al minimo. Così accade per la malattia. Unico segnale pubblico, la già citata cancellazione del Roots Picnic per il recupero post-chirurgico. Niente interviste, nessuna auto-narrazione del dolore. Solo famiglia, cura e — quando ha potuto — studio. È dentro questo silenzio che oggi si percepisce meglio quanto la sua musica fosse pensata, lavorata, limata nel dettaglio.
Un ascolto che continua: D’Angelo sulle piattaforme e nei vinili
Per i lettori italiani che vogliono approfondire in maniera rigorosa, la discografia essenziale è facilmente reperibile sulle principali piattaforme di streaming e in ristampe su vinile. “Brown Sugar” e “Voodoo” hanno avuto diverse edizioni con note di copertina che valgono la lettura per cogliere scelte tecniche e strumentazione. “Live at the Jazz Café, London: The Complete Show” in vinile doppio restituisce la fisicità di una band giovane e già telepatica. “Black Messiah” mantiene intatto il suo valore documentale oltre che musicale, con testi che suonano attuali in un dibattito pubblico che non si è certo chiuso nel 2014.
Per orientare l’ascolto, un trucco utile è seguire i musicisti. Dove c’è Questlove alla batteria, attendetevi un backbeat elastico; dove spuntano Pino Palladino e Charlie Hunter, ascoltate come dialogano basso e chitarra; dove compaiono archi e fiati firmati Roy Hargrove, fate caso alla scrittura: non ornamento, ma contrappunto. Così, dietro ogni canzone, si apre una mappa di relazioni, la vera cifra del suo modo di fare musica.
L’addio che pesa e l’eredità che resta
D’Angelo se n’è andato in silenzio, come spesso ha vissuto gli ultimi anni, ma il suo impatto continua a risuonare. Chi ci lascia è un autore, polistrumentista e bandleader che ha ridefinito il tempo del soul moderno; cosa resta è un catalogo breve e imprescindibile capace di influenzare intere generazioni; quando e dove sono scritti in apertura; perché la sua assenza si sente è evidente risentendo oggi “Brown Sugar”, “Voodoo” e “Black Messiah”: tre colonne che reggono ancora la casa della musica nera contemporanea.
Nella storia recente, pochi come lui hanno saputo insegnare a suonare l’aria tra le note. Quel modo di stare indietro sul rullante senza perdere la spinta in avanti, quel basso che canta e non accompagna, quella voce che sussurra e accende. È un’estetica che ha trovato casa nel lavoro di produttori e cantanti più giovani, nei live che hanno ripreso gusto per la sezione ritmica e per l’imperfezione voluta, nella riscoperta di strumenti come il Fender Rhodes e di bassi che riempiono senza invadere.
Nel suo ultimo anno, segnato dalla malattia, D’Angelo ha mantenuto la coerenza di sempre: pochi segnali, nessuna spettacolarizzazione del dolore, la dignità della famiglia e il calore di un pubblico che ha saputo attendere. Ora quell’attesa si trasforma in ascolto: i dischi sono lì, vivi, pronti a raccontare come una voce possa cambiare il ritmo di un’epoca. In questo addio c’è soprattutto un invito: rimettere la puntina su “Voodoo”, lasciar partire “Really Love”, scoprire il respiro profondo di “Unshaken” o lasciarsi ipnotizzare dalla ripetizione di “I Want You Forever”. La musica, quella vera, continua a parlare anche quando l’artista non c’è più.
La scia di un fuoriclasse che continuerà a ispirare
Il neo-soul come lo conosciamo è passato anche da lui. Non perché abbia inventato un genere, ma perché ha saputo rileggerlo con una serietà artigianale rara: studio, band, equilibrio tra tradizione e modernità, cura del dettaglio. D’Angelo ha dimostrato che si può essere pop senza essere superficiali, sofisticati senza essere elitarî, politici senza perdere la poesia. È il lascito più grande per chi oggi compone, produce o semplicemente ascolta: cercare verità nel suono, misura nel gesto, umanità nel canto.
È con questa consapevolezza che l’addio a D’Angelo — artista formidabile e uomo di poche parole — non è un punto, ma una pausa. Quella pausa che in musica vale più di molte note, e che anticipa il rientro del groove. Quando torneremo ad ascoltare “Brown Sugar”, “Untitled” o “Really Love”, ritroveremo quel respiro: è la prova che alcune voci non passano, restano. E continuano a insegnare come si sta sul tempo. In questo, D’Angelo, resta con noi.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Il Post, ANSA, Rolling Stone Italia, Rockol, Adnkronos, Fanpage.

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