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Colpo di Stato in Madagascar? Che succede e chi sono i ribelli

Foto di Pierre-Yves Beaudouin, CC BY-SA 4.0, da Wikimedia Commons
Antananarivo è entrata nelle ore più tese dell’ultimo decennio: una parte delle forze armate, in particolare l’unità d’élite CAPSAT (Corps Administratif et des Services de l’Armée), ha annunciato di avere assunto il controllo dell’esercito, mentre la presidenza denuncia “un tentativo di presa del potere illegale e con la forza”. Il risultato è un equilibrio instabile, con soldati in strada che hanno scortato i manifestanti nella storica Piazza del 13 Maggio, epicentro delle contestazioni, e un governo che parla di golpe in corso. Nelle ultime tre settimane almeno 22 persone sono morte negli scontri e centinaia sono rimaste ferite, secondo stime delle Nazioni Unite.
I “ribelli” sono parte delle forze armate guidate da vertici insubordinati della CAPSAT, la stessa unità che ebbe un ruolo decisivo nel 2009, quando l’attuale presidente Andry Rajoelina salì per la prima volta al potere dopo un’altra crisi istituzionale. I militari dissidenti hanno rifiutato di disperdere i cortei, hanno accompagnato i giovani in piazza e hanno installato come nuovo capo di stato maggiore il generale Démosthène Pikulas. Il primo ministro, il generale Ruphin Fortunat Zafisambo, nominato il 6 ottobre, ha chiesto dialogo e unità, ma la situazione resta fluida e altamente volatile.
Cronaca delle ultime ore e cosa sta accadendo sul campo
Il punto di rottura è arrivato tra l’11 e il 12 ottobre. In quei giorni i soldati della CAPSAT hanno lasciato la caserma di Soanierana e, invece di eseguire gli ordini di disperdere i cortei con la forza, si sono uniti ai manifestanti. Le colonne blindate hanno sfilato verso il cuore di Antananarivo con bandiere rosse, bianche e verdi al vento, tra applausi e canti. Il gesto ha aperto una falla nel sistema di comando e ha dato fiato a una mobilitazione giovanile già determinata e organizzata, battezzata “Gen Z Madagascar” per la forte impronta generazionale e digitale.
In risposta, la presidenza ha parlato senza giri di parole di “colpo di Stato in corso”, denunciando un tentativo di rovesciare l’ordine costituzionale. Nel frattempo, il ministro della Difesa e i vertici militari leali hanno moltiplicato appelli alla calma, mentre i golpisti annunciavano la nomina del generale Pikulas ai vertici delle forze armate. Il segnale politico più clamoroso è arrivato dal Senato, che ha rimosso il proprio presidente Richard Ravalomanana, considerato vicino a Rajoelina, una delle richieste che da giorni rimbalzavano nelle piazze.
Le strade della capitale restano presidiate e la tensione è palpabile. La presenza militare è evidente, i coprifuoco si alternano a momenti di apparente normalità, e gli appelli delle agenzie internazionali a evitare l’escalation si susseguono. L’African Union ha esortato a trovare una soluzione politica, mentre diverse ambasciate hanno consigliato ai propri cittadini di restare al sicuro e limitare gli spostamenti non essenziali. La presidenza assicura che Rajoelina è nel Paese e dirige gli affari correnti, nonostante le voci di una sua possibile fuga.
Chi è davvero la CAPSAT e perché la sua mossa pesa più di altre
Per capire perché la CAPSAT conti tanto bisogna ricordare la storia recente del Madagascar. Questo corpo, formalmente incaricato di funzioni amministrative e di supporto, si è progressivamente trasformato in un barometro del potere: nel 2009 si ammutinò contro l’allora presidente e contribuì all’ascesa di Andry Rajoelina. Da allora il nome CAPSAT evoca una realtà: quando si muove, l’equilibrio politico vacilla. Non parliamo di un reparto qualunque, ma di un corpo d’élite con risorse, mezzi, collegamenti e capacità di influenzare l’intera catena di comando.
Il profilo organizzativo spiega il peso della defezione: la CAPSAT ha logistica, addestramento e accesso ai nodi vitali delle forze armate. La sua scelta di non sparare e di schierarsi con i manifestanti ha rotto il fronte delle forze di sicurezza, incentivando altre unità a mantenere una posizione ambigua o attendista. La nomina di Démosthène Pikulas a capo di stato maggiore, celebrata in una cerimonia negli HQ militari, suggella l’intento di presentarsi non come una banda di ammutinati, ma come nuovi garanti dell’ordine. È la mossa che ha obbligato il governo a definire il quadro senza mezze misure: un golpe, o qualcosa che gli assomiglia molto.
Le radici nel 2009 e l’eredità mai risolta
Quando nel 2009 le proteste antigovernative investirono la capitale, la CAPSAT scelse di disobbedire e favorì la transizione che portò Rajoelina sulla scena. Quell’episodio ha lasciato un solco nella percezione pubblica: l’esercito come arbitro e, talvolta, protagonista della politica.
Oggi lo schema si ripete, ma con una differenza sostanziale: il carisma di piazza non è più monopolio di un singolo leader o di un partito, bensì è diffuso in una galassia generazionale che parla attraverso social network, live streaming e reti civiche. La prova è la capacità di riportare i cortei nella Piazza del 13 Maggio, simbolo di ogni contestazione dal 1991 in poi: un luogo dove chi controlla la piazza controlla il racconto.
Le ragioni della rivolta: blackout, acqua, prezzi e sfiducia
Le proteste non sono nate da un dossier ideologico, ma da problemi quotidiani: blackout elettrici e razionamenti d’acqua nella capitale, servizi interrotti, impennata del costo della vita, salari stagnanti. Il malessere, accumulato in anni di disservizi e promesse non mantenute, è esploso a fine settembre in manifestazioni giovanili che, in pochi giorni, hanno cambiato scala e tono. I giovani hanno portato in piazza cartelli contro la corruzione, richieste di riforme istituzionali e l’idea che “non è più accettabile tornare a casa e trovare il frigo spento e i rubinetti a secco”. La narrazione sociale – dirette Instagram, canali Telegram, meme politici – ha unito quartieri e province, creando un’agenda più ampia: dimissioni di Rajoelina, scuse pubbliche per le violenze, dissoluzione del Senato o almeno la rimozione del suo presidente, riforma della Corte costituzionale.
Il governo ha tentato di disinnescare la miccia con gesti politici rapidi: la dissoluzione del gabinetto a fine settembre, poi la nomina a primo ministro di Ruphin Fortunat Zafisambo, generale con immagine di “tecnico della sicurezza” e linguaggio di conciliazione. Non è bastato. Mentre i numeri della povertà restano tra i più alti dell’Africa e l’inflazione erode i consumi, la fiducia è crollata. Le dichiarazioni del premier contro gli eccessi nell’uso della forza hanno avuto l’effetto di una presa d’atto: lo Stato ammette la gravità della crisi, ma non riesce a governarla.
Il conto umano degli scontri è pesante. Secondo l’ONU, i morti sono almeno 22 dall’inizio delle proteste, ma è una cifra contestata e in evoluzione. La comunicazione ufficiale alterna condanne, promesse di inchieste, richiami all’unità nazionale. Sul terreno, però, la normalità non è tornata: le marce continuano, i cortei funebri dei caduti diventano a loro volta raduni di protesta e ogni settimana porta con sé un nuovo casus belli.
Le mosse del governo e l’incognita istituzionale
Mentre l’opposizione di piazza cresceva, la presidenza ha adottato una strategia a due tempi: shock politico (licenziamento del governo, rimpasto, apertura di un “dialogo nazionale”) e narrativa di sicurezza (denuncia del tentativo di colpo di Stato). In mezzo, il tentativo di tenere unita la catena di comando tra esercito, gendarmeria e polizia, realtà mai monolitiche. Il primo ministro Zafisambo ha provato a parlare a tutti – giovani, sindacati, religiosi, ufficiali – ma la CAPSAT ha fatto saltare il tavolo optando per un protagonismo militare che ha rimesso la caserma al centro della politica.
La rimozione di Richard Ravalomanana dalla presidenza del Senato è letta come un cedimento della diga istituzionale. Per i manifestanti è un risultato simbolico e pratico insieme: il Senato era percepito come un baluardo del potere e l’ex generale era divenuto un bersaglio politico. Per l’esecutivo, invece, la notizia complica il quadro: indica che le istituzioni si stanno riallineando sotto la pressione di piazza e di settori militari, riducendo lo spazio per mediazioni tradizionali.
Sul piano della sicurezza, la priorità è evitare che la capitale si frammenti in zone di controllo. Il coprifuoco e i posti di blocco cercano di prevenire saccheggi, assalti a edifici pubblici e vendette politiche. La memoria di passate crisi aleggia su Antananarivo: quando la Piazza del 13 Maggio si riempie, il rischio di incidenti aumenta. Le famiglie programmano gli spostamenti con cautela, le scuole e le università oscillano tra lezioni online e chiusure, i mercati si svuotano nei pomeriggi di mobilitazione. La vita quotidiana si è adattata a una logica dell’attesa.
Sul fronte internazionale, la Comunità dell’Africa australe guarda con apprensione, l’Unione Africana invoca la via del dialogo e diversi Paesi europei raccomandano cautela ai propri cittadini. Perfino il traffico aereo risente dell’instabilità: Air France ha sospeso i voli verso l’isola in ragione del rischio operativo crescente. I segnali convergono: il Madagascar è entrato in una zona grigia in cui ogni atto, anche amministrativo, ha conseguenze politiche.
I volti e le sigle: chi guida, chi spinge, chi tenta di mediare
La fisionomia dei ribelli è chiara: ufficiali e sottufficiali della CAPSAT, con una leadership che ruota attorno al generale Démosthène Pikulas. La loro identità si fonda su una narrazione di “neutralità attiva”: dicono di agire per impedire la repressione, ristabilire la calma e permettere una transizione concordata. È una posizione che evita parole come “golpe” ma mantiene fatti da colpo di mano: nomina dei vertici militari, occupazione di posizioni chiave, scorta ai cortei. L’obiettivo dichiarato è frenare il declino dell’ordine pubblico e aprire una nuova fase politica.
Sul versante governativo, il presidente Andry Rajoelina ha scelto la linea dura della legittimità: condanna della presa di posizione militare, apertura al dialogo ma senza concessioni sul potere esecutivo. Il primo ministro Zafisambo è il volto della de-escalation: insiste su unità e moderazione, parla di ascolto e dice di voler coinvolgere i giovani nei processi decisionali. È un equilibrio difficile: se parla troppo di dialogo, perde i duri del fronte governativo; se tende alla fermezza, rischia di alimentare la piazza.
Poi c’è la piazza, capillare, giovane, capace di auto-organizzazione. I coordinatori informali di Gen Z Madagascar non hanno un unico volto. Sono gruppi che condividono documenti, liste di richieste, calendari di scioperi e che dialogano con sindacati, chiese, professionisti. La strategia è “occupare senza rompere” finché possibile, marciare con i soldati quando questi si offrono di proteggere i cortei, evitare il terreno dei saccheggi che danneggiano consenso e legittimità. Quando la CAPSAT ha promesso protezione, l’afflusso in piazza è aumentato.
Nel mezzo operano mediatori e garanti: leader religiosi, ONG, alcuni diplomatici. È qui che si gioca la partita invisibile delle prossime settimane. Se l’esercito lealista e la gendarmeria resteranno compatti, la CAPSAT dovrà scegliere tra negoziare o spingere. Se invece si allargherà la faglia tra reparti, la mediazione potrebbe trasformarsi in un tavolo di transizione. Per ora il confine tra ammutinamento e golpe resta labile.
Le conseguenze concrete: sicurezza, economia, vite quotidiane
Ogni crisi politica si misura anche con l’impatto materiale. Il primo è la sicurezza: le giornate scorrono tra annuncio di cortei, coprifuoco serali, chiusure temporanee di uffici pubblici. Gli ospedali fanno i conti con i feriti degli scontri, le famiglie prevedono scorte d’acqua, le farmacie sono prese d’assalto nei giorni di tensione. Le scuole faticano a garantire continuità, il trasporto pubblico è intermittente e il commercio al dettaglio vive di incassi saltellanti. Sono dettagli che non fanno notizia all’estero ma creano la percezione che tutto possa peggiorare da un momento all’altro.
Poi c’è l’economia reale. Il Madagascar non è soltanto un paradiso naturale: è una filiera globale che rifornisce il mondo di vaniglia e materie prime strategiche e vive di turismo stagionale. I segnali d’allarme arrivano in fretta: compagnie aeree che cancellano o sospendono collegamenti, investitori che rinviano visite e audit, assicurazioni che ricalcolano i rischi. Un’interruzione prolungata dei trasporti e dei servizi potrebbe cambiare le previsioni di crescita per l’anno in corso, con effetti su occupazione e redditi familiari. Il governo insiste che “l’attività deve continuare”, ma ogni giorno di incertezza toglie fiducia alle imprese e ai consumatori.
L’immagine internazionale è il terzo fronte. La narrativa di un “golpe annunciato” in un Paese con povertà diffusa – oltre i tre quarti della popolazione vivono con pochissimo – ha un costo reputazionale che si traduce in condizionalità nei programmi di aiuto e in nuove clausole di governance nei progetti infrastrutturali. È anche per questo che, nonostante i toni accesi, entrambi i fronti evitano per ora il punto di non ritorno: un bagno di sangue che isolerebbe il Madagascar.
Le strade possibili: negoziato, braccio di ferro o transizione guidata
Nel breve periodo le opzioni sono tre. La prima è il negoziato: governo, CAPSAT e rappresentanti della piazza si siedono con garanti esterni e definiscono una road map che includa riforme, eventuali dimissioni o elezioni anticipate, cambi ai vertici istituzionali e impegni verificabili su acqua, luce, servizi. Per funzionare, servono gesti reciproci: sospensione di atti unilaterali e una de-escalation misurabile (meno blindati in strada, meno assalti ai palazzi pubblici).
La seconda opzione è il braccio di ferro: l’esecutivo recupera lealtà tra reparti chiave, isola la CAPSAT, spezza il fronte in piazza con arresti mirati e coprifuoco rigidi. È uno scenario rischioso, perché ogni errore operativo può trasformarsi in miccia. La logica del “ristabilire l’ordine” potrebbe frammentare ulteriormente le forze di sicurezza e alimentare nuove adesioni alla rivolta.
La terza è una transizione guidata: il peso crescente dei mediatori porta a un accordo ponte con figure tecniche o militari al timone per un periodo limitato, un po’ sulla falsariga di quanto si è visto nel passato malgascio ma con l’innesto di garanzie più robuste su diritti, stampa, osservatori elettorali. È il sentiero preferito da chi teme il vuoto di potere e desidera stabilizzare senza cristallizzare l’eccezione.
Quale che sia la strada, la condizione chiave è ricostruire fiducia. Senza elettricità regolare, acqua potabile disponibile e segnali chiari su anticorruzione e spesa sociale, il patto tra cittadini e Stato rimane precario. E senza linee di comando univoche dentro le forze armate, ogni accordo rischia di essere rimesso in discussione dal reparto successivo.
Cosa dicono i numeri e dove si muove l’opinione pubblica
I dati disponibili raccontano un Paese giovane e urbanizzato in rapida trasformazione. La fascia under 30 è la più colpita da disoccupazione e lavoro informale, ed è anche quella che organizza e narra la protesta. La morte di 22 persone – studenti, attivisti, passanti – ha creato una memoria collettiva che tiene la piazza mobilitata e rende difficile per chiunque “spegnere” il movimento con un semplice comunicato.
La percezione che la politica non sia riuscita a migliorare i servizi essenziali pesa più di qualunque hashtag. Le richieste su acqua ed elettricità non sono un orpello: determinano salute, sicurezza alimentare, reddito. Quando la corrente salta, si ferma la catena del freddo, si interrompono le lezioni, si rinvia una chirurgia, si perdono scorte nei negozi. È qui che la protesta si radica: la politica è vissuta come efficienza o inefficienza, non come tribuna.
Intanto, il racconto internazionale influenza il consenso interno. L’etichetta “golpe” mobilita solidarietà e condanne, ma a Antananarivo i manifestanti preferiscono parlare di “protezione militare” della piazza. Per loro, il punto non è chi governa, ma come: meno corruzione, più servizi, istituzioni meno opache. Il rischio è che, senza un risultato tangibile in tempi ragionevoli, la speranza lasci spazio al disincanto, e con esso all’estremizzazione.
Madagascar al bivio: la finestra stretta per evitare l’abisso
Oggi, la domanda non è solo se ci sia un colpo di Stato, ma come il Madagascar possa uscire da un impasse che ricorda le cicatrici del passato. Gli ammutinati della CAPSAT hanno rotto l’incantesimo della forza univoca dello Stato, e il governo ha risposto invocando la legalità e denunciando una presa del potere. In mezzo c’è un Paese stremato dai disservizi, dove la gioventù urbana ha imposto un’agenda concreta: luce, acqua, lavoro, istituzioni che rispondano ai cittadini. Le prossime 72 ore valgono come settimane: basterebbe un errore per far scivolare tutto in una spirale difficile da controllare; basterebbe un gesto per riaprire uno spazio politico credibile.
La chiave è nel linguaggio dei fatti. Un segnale forte – la garanzia che le forze armate tornino sotto una catena di comando riconosciuta, l’annuncio di una road map con verifiche pubbliche e tempi certi sui servizi essenziali – può abbassare rapidamente la temperatura. Al contrario, un irrigidimento senza sbocchi rischia di spaccare ancora di più apparati, società e istituzioni. Il Madagascar ha già visto come finisce quando la piazza e la caserma si parlano solo attraverso i megafoni: si finisce a inseguire l’emergenza. L’esito non è scritto, ma la finestra per evitarlo è stretta e si misura in giorni, non in mesi.
In gioco non c’è soltanto un equilibrio di potere. C’è la credibilità di uno Stato e la fiducia dei suoi cittadini. Se il patto si ricuce, il “golpe in corso” resterà un brivido nella storia. Se salta, il conto – umano, economico, democratico – sarà alto. In questo crocevia, la scelta tocca a tutti gli attori: chi governa, chi protesta, chi comanda. E, soprattutto, a chi avrà il coraggio di mettere davanti acqua, luce e dignità alle bandiere.
🔎 Contenuto Verificato ✔️
Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: la Repubblica, Corriere della Sera, Il Post, Rai News, ANSA, Il Sole 24 Ore.

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