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Addio a Roberto Russo, chi era il marito di Monica Vitti

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Addio a Roberto Russo

Ritratto completo di Roberto Russo, regista e marito di Monica Vitti: vita, film, nozze in Campidoglio e l’ultimo saluto a Roma il 23/9/2025.

Roberto Russo si è spento a Roma nel weekend del 20-21 settembre 2025, a 77 anni. Regista, sceneggiatore e fotografo, è stato il compagno di una vita di Monica Vitti, che sposò nel 2000 dopo un legame cominciato negli anni Settanta. Figura schiva ma centrale nel nostro cinema, aveva scelto da tempo la discrezione: la malattia, che lo aveva colpito nel 2023, lo aveva portato in una Rsa della Capitale. I funerali sono fissati per martedì 23 settembre 2025 alle 10.30 nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. Un congedo sobrio, com’era nel suo stile, con il settore che gli deve molto per un’idea di racconto intimo coltivata con rigore e senza clamore.

Chi era, davvero, il marito di Monica Vitti? Un autore appartato ma essenziale, capace di passare dall’obiettivo fotografico alla regia firmando “Flirt” (1983) e “Francesca è mia” (1986), due film che hanno messo a fuoco la crisi e l’enigma della coppia con un tratto personale. Con “Flirt” vinse il David di Donatello come miglior regista esordiente (1984), mentre Vitti ottenne alla Berlinale l’Orso d’argento per il “miglior contributo singolo”: un’accoppiata che racconta bene la loro alleanza creativa. Prima ancora, Russo era fotografo di scena, mestiere che gli ha insegnato il rispetto per i dettagli e il pudore dello sguardo. Nel privato, ha incarnato l’idea di compagno vigile, proteggendo l’attrice durante la malattia, difendendone privacy e dignità anche quando l’onda della curiosità cresceva.

Dalla fotografia al set: il profilo professionale

La cifra di Roberto Russo nasce con la fotografia di scena, in anni in cui il cinema italiano alternava la leggerezza della commedia popolare e i riscatti autoriali. Lì, tra tagli di luce e gesti rubati, matura un’educazione visiva che rifiuta le pose e cerca l’abitato della realtà, l’interstizio in cui un’espressione o un movimento dicono più di molte battute. È una palestra di sguardo che segnerà il passaggio alla regia. Quando decide di dirigere, non insegue la produzione seriale ma un percorso rarefatto, fatto di pochi film e molte scelte. La parsimonia è una poetica: non girare se non c’è urgenza, non filmare se l’inquadratura non aggiunge senso. Si riconosce da subito un tempo narrativo lento, mai compiaciuto, che lascia spazio alla psicologia e alla percezione.

“Flirt” è il debutto che lo consegna alla mappa del cinema d’autore dei primi anni Ottanta. Una commedia sentimentale appoggiata su un’idea dirompente: una terza persona immaginaria che entra nella coppia e ne altera l’equilibrio. Non è il tradimento a interessargli, ma il potere dell’immaginazione quando interferisce con la realtà, l’ombra che si allunga sui gesti quotidiani. La regia lavora per sottrazione, i dialoghi sono asciutti, la messa in scena ordina i volumi come in una fotografia studiata. La musica non è un tappeto ma un controtema emotivo: Francesco De Gregori scrive brani originali riuniti nel mini-LP “La donna cannone”, un tassello che ha contribuito a dare al film una temperatura sentimentale inconfondibile. È un cinema che non strilla, che affida la tensione a piccole crepe sul volto, a silenzi che rivelano più delle parole.

Tre anni dopo, “Francesca è mia” rilancia la sua poetica sul terreno dell’amour fou. Scritto con Vincenzo Cerami e con la stessa Vitti, il film racconta un’ossessione amorosa che investe, inghiotte, consuma. Russo non cerca l’effetto, cerca l’intensità. La macchina da presa rimane rispettosa, quasi timida, come se chiedesse permesso alle emozioni. In colonna sonora arrivano le camminate ritmiche di Tullio De Piscopo, che scandiscono gli sbalzi del desiderio. Anche qui, la scelta di campo è netta: niente frastuono, ma persone. È ciò che distingueva Russo in una stagione in cui la commedia si apriva al consumo televisivo e l’autorialità cercava nuovi linguaggi. Lui, invece, resta fedele al suo: raccontare due persone e la faglia che le unisce o le separa.

Monica e Roberto: una storia d’amore costruita nel tempo

L’incontro che cambia una vita arriva nel 1973 sul set di “Teresa la ladra”. Russo ha venticinque anni, una curiosità disciplinata e la pazienza di chi sa guardare; Monica Vitti ne ha quarantuno, è un’attrice già iconica capace di attraversare Antonioni e la commedia all’italiana con la stessa naturalezza. Sedici anni di differenza, che diventano spazio fertile. Nasce un rapporto fuori dagli schemi, costruito nel tempo lungo della fiducia, fatto di complicità operosa e di scelte contro la moda dell’ostentazione. Non c’è fretta di formalizzare: il matrimonio arriva il 28 settembre 2000, in Campidoglio, quando il loro patto è già roccia. Un sì che non cambia il tono della relazione, semmai lo ufficializza davanti alla città che li ha visti nascere e crescere.

La geografia domestica è essenziale: Roma, una casa in cui l’attrice si ritira quando la malattia inizia a sottrarre la memoria, e in cui Russo diventa cura quotidiana. Quando Vitti muore, il 2 febbraio 2022, il suo saluto pubblico è composto, coerente con una vita riparata. Russo non devia dal registro di sempre: poche parole, nessuna retorica, la dignità come principio. È il filo di un amore che sceglie la sostanza alla visibilità, la presenza all’esibizione. Nel cinema e nella vita, il loro è stato un cantiere condiviso: sceneggiature scritte insieme, set vissuti spalla a spalla, decisioni prese in due. Un sodalizio che ha prodotto film, ma soprattutto un metodo: ascoltare, misurare, tagliare il superfluo.

La tutela della privacy: il muro gentile contro le falsità

Nel 2018, in piena stagione di fake news, cominciano a circolare voci insistenti su un presunto ricovero di Vitti in una clinica svizzera. Roberto Russo interviene con chiarezza, rompe la sua tradizionale riservatezza e dice basta: Monica vive a casa, a Roma, assistita da lui e da una caregiver. Non è un comunicato studiato per i media, ma un atto dovuto, un modo per proteggere la verità dalle caricature della rete. È un passaggio emblematico per capire chi era: un uomo che nega il palcoscenico alla malattia, che si oppone alla riduzione dell’intimità a spettacolo. Lo stesso rigore tornerà negli anni successivi, di fronte a qualunque tentativo di trasformare il loro quotidiano in cronaca di costume.

Questo spirito di custodia ha segnato anche i racconti professionali che riguardavano Vitti. Interviste selezionate, filtri minimi, la convinzione che l’immagine di un artista non sia una merce ma un patrimonio da trattare con cura. In tempi in cui l’over-sharing è la norma, Russo ha scelto l’understatement: poche dichiarazioni, fatti. Quando parlava, lo faceva per mettere in ordine le cose, non per cavalcarle. Ha difeso l’integrità del ricordo, evitando che l’ultima stagione della vita di Vitti venisse usata come contenuto. È la stessa coerenza che tanti addetti ai lavori oggi riconoscono come parte della sua eredità morale, un insegnamento che va oltre i film e tocca il nostro modo di narrare gli altri.

L’ultimo saluto: data, luogo, significato

Per chi vorrà rendere omaggio, l’appuntamento è a Roma, martedì 23 settembre 2025, alle 10.30, nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. Non è un luogo qualunque: in quella chiesa il cinema italiano ha salutato molti protagonisti, ed è lì che verrà ricordato un autore che ha scelto di stare un passo indietro, lasciando che fossero i suoi film e i suoi gesti a parlare. La comunità del cinema — registi, attori, tecnici, fotografi — ne riconosce il tratto: un professionista affidabile, un collega gentile, un compagno di set che non ha mai alzato la voce ma ha sempre saputo farsi ascoltare.

La cerimonia arriva a pochi giorni dalla ricorrenza del suo compleanno, un dettaglio che aggiunge una nota tenera a un congedo già intriso di memoria. Non c’è enfasi: chi lo ha conosciuto sa che avrebbe preferito sobrietà e misura. Eppure, in un saluto così, si raccolgono cinquant’anni di vita condivisa con Monica Vitti e quarant’anni di cinema vissuti a contatto con una generazione che ha segnato la nostra cultura visiva. L’ultimo grazie è per il suo lavoro invisibile e per la sua fermezza discreta: la stessa fermezza che lo portò, anni fa, a chiedere rispetto per l’intimità dell’attrice, e che oggi suggerisce a tutti di ascoltare in silenzio.

Film, premi, collaborazioni: l’opera in sintesi ragionata

Nel catalogo di Russo, “Flirt” resta un tassello fondativo. È un film di coppia e di percezione, costruito su una ambiguità che diventa dispositivo narrativo. Non c’è thriller, c’è psicologia; non c’è voyeurismo, c’è domestico osservato con precisione. Il David di Donatello come miglior esordiente sancisce non soltanto la qualità dell’opera, ma anche la tenuta della regia su un terreno scivoloso. A Berlino, dove i premi speciali spesso vanno a interpretazioni o contributi di rara intensità, l’Orso d’argento assegnato a Monica Vitti per il “miglior contributo singolo” dà visibilità internazionale a un progetto italiano che parla sottovoce e arriva lontano.

Con “Francesca è mia”, Russo affila i temi e li porta al limite dell’ossessione. In scrittura c’è lo sguardo narrativo di Vincenzo Cerami, capace di alleggerire la densità con linee di dialogo calibrate. La musica diventa impulso grazie a Tullio De Piscopo, che traduce in ritmo le increspature emotive del racconto. Il montaggio segue una cadenza interiore, i luoghi parlano per sottrazione: case, strade, stanze che non hanno bisogno di essere spiegate, perché sono abitazioni di sentimenti. In mezzo, l’esperienza collettiva di “L’addio a Enrico Berlinguer” (1984), documentario a più mani, dove Russo partecipa a un ritratto corale del Paese. Qui si vede la sua artigianalità: sapersi mettere a servizio di un’opera comune, senza cercare la firma a tutti i costi.

C’è poi la trama delle collaborazioni: Monica Vitti in primo piano, naturalmente, non solo come interprete ma come coautrice; Silvia Napolitano alla scrittura di “Flirt”; Cerami nella seconda prova; De Gregori e De Piscopo per le musiche; Luigi Kuveiller e Franco Di Giacomo alla fotografia; Alessandro Haber, Jean-Luc Bideau, Corrado Pani tra gli attori. Un mosaico di competenze riconoscibili, messo insieme con cura. Russo dirige con tatto: non piega i collaboratori, li accorda. Il risultato è un tono coerente che attraversa i film, uno stile asciutto e minuzioso in cui il piacere per il dettaglio visivo — retaggio della fotografia — convive con l’attenzione al tempo interno dei personaggi.

Un metodo e uno sguardo: cosa ha lasciato al cinema italiano

Il metodo Russo si potrebbe riassumere in tre parole: misura, ascolto, rigore. Misura significa scegliere: pochi film, nessuna rincorsa alla quantità, la fiducia che a volte dire meno valga di più. Ascolto significa entrare nel perimetro dei personaggi in punta di piedi, non violare il loro spazio, inventare una grammatica delle ellissi dove chi guarda è chiamato a completare. Rigore significa montare con la pazienza del fotografo che aspetta la luce giusta, scrivere con l’orecchio sui dialoghi, dirigere senza stancarsi di provare. Questo modo di lavorare, che può sembrare inattuale nell’epoca dei ritmi vertiginosi, è la sua eredità più concreta.

A questi elementi si aggiunge una etica del set: gentilezza negli scambi, precisione nelle consegne, assenza di narcisismo. Chi ha incrociato Russo lo ricorda come un professionista affidabile, uno che non si mette in mezzo tra l’attore e la scena, ma crea le condizioni perché l’interpretazione respiri. È anche per questo che la fotografia resta il suo alfabeto originario: un alfabeto che insegna a stare fermi prima di scattare, a chiedersi perché si sta riprendendo qualcosa, a non riempire il campo senza motivo. Nell’epoca delle immagini in overdose, questa grammatica della sobrietà è un lascito prezioso.

Un ritratto domestico: l’uomo dietro l’autore

Nella vita privata, Russo ha scelto la routine come forma di fedeltà. La casa, le abitudini, una cerchia stretta di affetti e collaboratori. Poca mondanità, quasi nessuna esposizione gratuita. È un tratto che si avverte anche nelle rare interviste: frasi nette, nessuna compiacenza, il rifiuto della spiegazione superflua. Dietro l’immagine del regista, c’è l’uomo che accompagna una delle più grandi attrici italiane nel ritiro dagli sguardi pubblici, che si occupa delle piccole cose e smonta quando serve le ricostruzioni fantasiose. Chi ha lavorato con lui parla di una calma operosa, di tempi umani sul set, di una leadership fatta di esempi più che di comandi.

Anche la malattia affrontata negli ultimi anni non cambia il suo codice. Quando la salute si incrina, non cerca scorciatoie narrative: accetta la fragilità come parte della vita e continua a sottrarre, a selezionare ciò che dev’essere pubblico e ciò che dev’essere protetto. Questo modo di stare al mondo — sobrio, coerente, solidale — spiega perché, in queste ore, il suo nome risuoni non soltanto tra cinefili e addetti ai lavori, ma anche tra i lettori comuni che hanno imparato a conoscere quella coppia attraverso ricordi, passaggi televisivi, fotografie in bianco e nero. La biografia di Russo non è rumorosa, ma è piena.

L’eco di un amore custodito

Salutare Roberto Russo significa ricordare un autore che ha inciso in punta di penna e in punta di piedi, e un marito che ha saputo difendere l’amore dall’esibizione. Due film chiave, una stagione fotografica importante, una collaborazione con alcuni tra i nomi più solidi del nostro cinema e della nostra musica, un impegno etico per la privacy: è questo il profilo che resta. Nel quadro più grande della memoria italiana, la sua figura racconta che stare defilati non significa essere marginali; al contrario, si può incidere senza sovraesposizione, si può sostenere un mito come Monica Vitti senza mettersi davanti.

I lettori troveranno in queste righe le coordinate essenziali: quando e dove si terrà l’ultimo saluto, chi è stato Russo per Vitti e per il cinema, quali opere segnano la sua traiettoria e perché se ne parla con rispetto. Il resto è nelle immagini che ha scattato e nei film che ha diretto, nelle scelte che hanno rifiutato il rumore, nella cura che ha attraversato i decenni. È un’eredità silenziosa ma viva, che illumina, a distanza, una delle storie d’amore più significative e concrete del nostro immaginario. In questa misura — senza enfasi, con precisione — c’è la risposta alla domanda che molti si sono fatti oggi: chi era il marito di Monica Vitti. Era Roberto Russo: un professionista rigoroso, un compagno leale, un uomo di poche parole e di molti fatti. E tanto basta per chiamarlo, senza esitazioni, parte della nostra memoria collettiva.


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