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Chi è Sarah Mullally, da infermiera a “papessa” degli Anglicani

Foto di World Economic Forum, Wikimedia Commons, su licenza CC BY-SA 2.0
Sarah Mullally è la vescova di Londra dal 2018, la prima donna a guidare una delle sedi più influenti della Chiesa d’Inghilterra. Ex capo degli infermieri d’Inghilterra, manager pubblico di lungo corso e pastora abituata ai dossier complessi, è diventata il volto di una leadership anglicana capace di coniugare rigore istituzionale e sensibilità sociale. La sua parabola, che intreccia ospedali, ministeri e parrocchie, racconta un cambio d’epoca: la Chiesa stabilmente inserita nel tessuto civile britannico, ma in ascolto di città, famiglie e professioni che cambiano.
Dire “la papessa degli anglicani” è un modo giornalistico per rendere l’idea del peso dell’incarico, ma va precisato: l’anglicanesimo non ha un pontefice e il primato d’onore spetta all’arcivescovo di Canterbury. Il vescovo di Londra è però tra le massime autorità della Chiesa d’Inghilterra e, nella vita pubblica del Regno Unito, una delle voci religiose più ascoltate. Con Mullally, il ruolo ha acquisito un profilo nuovo: competenze di sanità e amministrazione dentro una missione pastorale che copre una metropoli multietnica e multireligiosa.
Profilo essenziale e ruolo istituzionale
Guidare la diocesi di Londra significa tenere insieme una delle comunità cristiane più vaste e visibili del Paese, con parrocchie che spaziano dall’antico cuore finanziario della City ai quartieri residenziali dell’ovest, fino alle periferie in forte trasformazione. Il vescovo di Londra è tradizionalmente Decano delle Cappelle Reali, presenza di riferimento nelle cerimonie di Stato e nella vita religiosa della monarchia. È anche una delle figure della Camera dei Lord, dove i cosiddetti “Lords Spiritual” portano la voce delle comunità di fede nei dibattiti legislativi. È una funzione che richiede equilibrio: parlare al governo e alla società civile senza perdere il contatto con i fedeli, amministrare risorse e patrimonio culturale senza snaturare la missione pastorale.
In questo contesto, Mullally ha dato una impronta professionale e misurata, tipica di chi è abituato a lavorare con protocolli, priorità e responsabilità pubbliche. Ha ereditato una diocesi prestigiosa, segnata da secoli di storia, ma immersa nelle dinamiche contemporanee: migrazioni, nuove povertà, fragilità psicologiche, un pluralismo religioso vivace e, allo stesso tempo, la necessità di preservare un patrimonio artistico e architettonico che parla al mondo intero. Il suo compito tocca la cura delle persone, la formazione dei ministri, le politiche di safeguarding a tutela dei più vulnerabili, la gestione di grandi eventi liturgici e la mediazione nelle discussioni dottrinali interne alla Comunione anglicana.
Dalla corsia al Whitehall: una carriera sanitaria che segna il metodo
Prima della talare, Sarah Mullally ha indossato il camice. Si è formata come infermiera, ha lavorato in ospedali di riferimento e ha scalato rapidamente la dirigenza sanitaria fino a diventare Chief Nursing Officer for England. È stato un passaggio cruciale: a cavallo tra anni Novanta e Duemila, il sistema sanitario britannico cercava di rispondere a nuove aspettative in termini di qualità e sicurezza delle cure, con la necessità di standard condivisi e di una leadership clinica capace di dialogare con ministri, manager e professionisti di corsia.
Quella stagione le ha dato la grammatica del suo futuro episcopato: governance, misurazione degli esiti, attenzione alla sicurezza, valorizzazione dei team multidisciplinari. Lì ha imparato a mediare tra interessi diversi, a gestire la comunicazione in momenti di crisi, a difendere in pubblico scelte impopolari ma necessarie e a rendere conto in modo trasparente di risultati e limiti. È un capitale di esperienza che nel ministero anglicano non è un semplice fiore all’occhiello, ma un modo di lavorare: piani, priorità, indicatori, ascolto strutturato, feedback periodici. Il suo stile evita gli slogan e predilige documenti chiari, processi verificabili, responsabilità definite.
Per un lettore italiano, abituato a leggere la Chiesa d’Inghilterra con le lenti del confronto con il cattolicesimo, la traiettoria di Mullally è rivelatrice: sanità pubblica, amministrazione, fede e servizio non sono mondi separati, ma assi di una stessa competenza civica. Una vescova che sa come funziona un grande ospedale è anche una leader che conosce la grammatica delle città complesse, di organizzazioni fatte di persone e procedure. È un patrimonio prezioso quando ci si trova a coordinare clero, laici, volontari, funzionari, uffici legali e comunicazione in una diocesi che è anche una vetrina internazionale.
Vocazione e ministero: le radici pastorali di una leadership moderna
Il percorso vocazionale di Mullally non è stato una fuga dalla vita civile, ma una maturazione dentro di essa. Ordinata diacona e poi presbitero all’inizio degli anni Duemila, ha imparato il ministero in parrocchie urbane segnate da pluralismo e fragilità sociali: famiglie con risorse limitate, giovani sospesi tra opportunità e precarietà, anziani che cercano reti di prossimità, nuove comunità arrivate grazie all’immigrazione. Sono contesti che domandano una pastorale concreta: liturgia che parli, amministrazione corretta, progetti sociali sostenibili, formazione dei volontari, educazione alla corresponsabilità.
A livello ecclesiale, Mullally ha fatto esperienza di comunità che si reinventano. Chiese storiche che abbracciano forme più partecipative di liturgia, parrocchie che aprono i loro spazi a servizi per la cittadinanza, partenariati con realtà non confessionali per rispondere a bisogni educativi e culturali del quartiere. In tutto questo, l’attenzione alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili è diventata un pilastro non negoziabile. Una Chiesa credibile, nella sua visione, non è solo quella che annuncia, ma quella che protegge, previene gli abusi, forma i responsabili, verifica e corregge le proprie procedure.
La maturazione teologica è stata segnata da un realismo pastorale: annunciare il Vangelo in una metropoli globale significa evitare semplificazioni e abitare i conflitti con pazienza, anche quando si tratta di temi divisivi. Non si tratta di “cercare il centro” per calcolo, ma di custodire il dialogo tra sensibilità diverse, accompagnando processi di discernimento che richiedono tempo, studio e confronto franco. È il tratto che la renderà riconoscibile anche da vescova: fermezza nelle “cose di principio” e rispetto per chi, nello stesso corpo ecclesiale, vede e sente diversamente.
Dall’episcopato locale alla guida di Londra
La chiamata all’episcopato è arrivata con la consacrazione a vescova suffraganea in una diocesi del sud-ovest inglese, esperienza che le ha consentito di misurarsi con il governo di un territorio ampio, ma con densità meno pressante di Londra. È lì che ha affinato lo stile: visite pastorali strutturate, attenzione alla salute del clero, cura dei legami con amministrazioni locali e mondo associativo, investimenti nella formazione diaconi-presbiteri-laici. L’attenzione al benessere organizzativo – legato alla sua lunga pratica nel mondo sanitario – ha segnato linee guida su carichi di lavoro, prevenzione dello stress e supporto nelle crisi.
Nel 2018, l’approdo a St Paul’s Cathedral ha avuto un valore storico: prima donna vescova di Londra, chiamata a guidare una delle sedi simbolo dell’anglicanesimo mondiale. Londra non è una diocesi qualsiasi. È la capitale globale, crocevia di finanza, cultura e migrazioni; è la città delle grandi liturgie e delle piccole parrocchie di quartiere, dell’arte sacra e della pastorale della strada. È anche una vetrina mediatica che amplifica ogni gesto e parola.
L’episcopato londinese di Mullally ha attraversato stagioni delicate. La pandemia ha trasformato abitudini e priorità: chiese che passano allo streaming, cappellanie ospedaliere in prima linea, comunità che inventano reti di sostegno per i più fragili. In quel frangente, la sua doppia competenza – sanitaria e pastorale – ha funzionato come un ponte: rigore nelle misure, attenzione ai lavoratori della salute, sostegno psicologico e spirituale a famiglie e personale provati da lutti e stanchezze. Nel dopo-pandemia, la ripartenza ha chiesto nuove alfabetizzazioni: come tornare alla presenza senza perdere il digitale utile, come riattivare i legami sociali e le economie parrocchiali provate dalla crisi.
Nella sfera pubblica, il vescovo di Londra è anche protagonista di cerimonie nazionali e di momenti che segnano la memoria collettiva. La voce della diocesi risuona nelle cattedrali come nelle piazze, nei messaggi di cordoglio e nelle iniziative di preghiera comune, con una costante: riconoscere il dolore della città e, insieme, incoraggiare responsabilità, dall’impegno per i senzatetto alla cura dell’ambiente urbano, dalla lotta alla solitudine al sostegno delle famiglie.
Sotto i riflettori: dottrina, inclusione e tutela
Un tratto centrale della stagione Mullally è la gestione di temi sensibili che attraversano le Chiese storiche: inclusione, riconoscimento e benedizione delle unioni, ruolo delle donne e delle persone LGBT+, custodia della tradizione dottrinale e spinta al rinnovamento pastorale. In Inghilterra questi percorsi hanno preso forma in processi sinodali e gruppi di lavoro che hanno prodotto documenti, preghiere, indicazioni pastorali e “tappe sperimentali”. Come vescova di Londra, Mullally ha svolto ruoli di coordinamento e mediazione, cercando un linguaggio comune che riconoscesse la pluralità delle coscienze senza rompere l’unità.
Qui emerge il suo marchio: scrupolo procedurale e toni pacati. Nei percorsi più divisivi, ha preferito i passi empirici e verificabili alle formule assolute, assumendo su di sé la responsabilità di tenere aperto il tavolo. È una linea che scontenta talvolta gli estremi, ma che risponde a una visione della Chiesa come corpo ampio, capace di camminare insieme pur con ritmi e accenti diversi. Dall’altro lato, la tutela dei vulnerabili è rimasta un asse fermo: procedure più severe, formazione obbligatoria, obbligo di segnalazione, verifiche periodiche e una cultura che metta al centro l’ascolto delle vittime. Per una leader che viene dalla sanità, “primum non nocere” non è uno slogan, ma un metodo: prevenzione, trasparenza, audit, miglioramento continuo.
Stile personale: tra cura pastorale e competenza manageriale
L’immagine pubblica di Sarah Mullally sfugge agli stereotipi. Non è una tribuna che incendia gli animi a colpi di dichiarazioni, e non è nemmeno una tecnocrate chiusa in un ufficio. È una ascoltatrice metodica: nei suoi incontri, raccontano i collaboratori, c’è sempre un momento in cui prende appunti, chiede dati, verifica una procedura. È anche una pastora che conosce la fatica del ministero sul campo: sa cosa significa reggere una parrocchia con budget stretti, affrontare una ristrutturazione, gestire un caso di malessere improvviso in comunità.
Questo doppio registro si traduce in scelte concrete: formazione continua del clero e dei laici, cura delle competenze comunicative, accompagnamento del personale nelle transizioni più difficili (cambi di incarico, crisi personali, chiusura o fusione di parrocchie). Da manager pubblica, Mullally porta in dote l’idea che ogni decisione importante dev’essere tracciabile: un perché, un perimetro, una valutazione di impatto, un modo per misurare i risultati. Da vescova, aggiunge la dimensione della preghiera e del discernimento comunitario, perché l’efficacia da sola non basta se non è orientata a un bene condiviso.
Nella sfera mediatica, predilige linguaggi sobri. Sa usare i momenti simbolici – una veglia, una visita, un incontro con operatori sociali – per dare messaggi chiari senza clamori. È lo stesso stile con cui affronta le crisi: presenza, ascolto delle parti, équipe che lavorano con mandato e scadenze, comunicazioni che non alimentano polemiche ma riportano ai fatti. È una leadership che umanizza l’istituzione senza dissolverne l’autorevolezza.
Perché interessa ai lettori italiani: un caso di studio tra Chiesa e città
Per il pubblico italiano, il profilo di Mullally ha almeno tre elementi di interesse. Il primo è istituzionale: l’anglicanesimo non ha un papa e vive di una sinodalità distribuita, con autorità locali forti e una comunione globale che punta all’unità nella diversità. Dentro questo modello, il vescovo di Londra è un hub: parla alla nazione, dialoga con la monarchia, accompagna una delle capitali più globali del pianeta. Capire come esercita la sua funzione aiuta a leggere le tensioni e le risorse delle Chiese storiche in Europa.
Il secondo è pastorale-civile. Londra concentra sfide che toccano ogni grande città: costo della vita, crisi abitative, solitudine, integrazione, salute mentale. La diocesi ha sviluppato risposte che vanno dalla pastorale del lavoro al sostegno scolastico, dalla cura delle dipendenze alla collaborazione con enti locali per progetti culturali e sociali. Una leader che ha guidato squadre sanitarie sa valutare partnership, bandi, rendicontazioni, arruolando competenze anche fuori dai confini ecclesiali. È un approccio che parla all’Italia: parrocchie come infrastrutture sociali che possono collaborare con comuni, scuole e terzo settore senza perdere identità.
Il terzo è ecumenico. La relazione tra la Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa cattolica in Gran Bretagna è fitta di incontri e progetti condivisi su povertà, migrazioni, giustizia sociale. La figura del vescovo di Londra, di cui Mullally ha dato una versione inclusiva e professionale, facilita questi rapporti: linguaggio rispettoso delle differenze, alleanze pragmatiche sui bisogni concreti delle persone. Per i lettori italiani, abituati a un lessico spesso polarizzato, è uno sguardo utile: meno annunci, più cantieri, dove le comunità di fede possono fare la differenza insieme.
Che cosa cambia con una donna a Londra: simboli e prassi
L’ordinazione episcopale delle donne nella Chiesa d’Inghilterra è una novità relativamente recente nella lunga storia anglicana. L’arrivo di Sarah Mullally a Londra ha avuto un impatto che supera il dato simbolico. Ha significato ridefinire prassi e immaginario: una donna che celebra liturgie solenni a St Paul’s, che rappresenta la Chiesa nelle cerimonie nazionali, che entra nella stanza dei bottoni delle decisioni. Per molte giovani anglicane è stato un segnale di possibilità: vocazioni che non si fermano davanti a soffitti di cristallo, talenti chiamati a responsabilità senza doversi giustificare.
Sul piano pratico, il suo arrivo ha accelerato percorsi di mentoring, reti di sostegno per il clero femminile, attenzione a temi spesso trascurati: equilibrio vita-lavoro, congedi, prevenzione del burnout, ambienti di lavoro rispettosi. Lungi dall’essere una bandiera, Mullally ha posto la questione dentro la cornice della qualità del ministero: una Chiesa che tratta bene i suoi ministri – uomini e donne – serve meglio la società. Questo ha contribuito a normalizzare la presenza femminile nelle responsabilità, facendo scendere la temperatura ideologica e alzando, invece, l’asticella della professionalità.
Non sono mancati i passaggi controversi. La pluralità interna dell’anglicanesimo comprende comunità che faticano ad accettare l’episcopato femminile o che chiedono provvedimenti di tutela per chi, per ragioni di coscienza, non può riconoscerlo. Anche qui il metodo Mullally è stato inclusivo e paziente: riconoscere gli spazi di dissenso senza congelare la trasformazione in atto, trovare soluzioni di “mutua ricettività” che tengano insieme, nel concreto della vita ecclesiale, ministeri e comunità differenti.
Una vescova manager nella città delle città
Londra è un laboratorio permanente. Migrazioni, start-up, università, arte, quartieri che cambiano volto, diseguaglianze che si allargano, energie civiche che si auto-organizzano. In questo scenario, la vescova di Londra funziona da cerniera: tra istituzioni e quartieri, tra luoghi simbolici e servizi di prossimità, tra heritage e innovazione. È un lavoro spesso invisibile, fatto di tavoli tecnici, bandi, autorizzazioni, pressioni incrociate, mediazioni con attori laici e religiosi. Qui torna utile la sua esperienza da alto dirigente pubblico: pianificazione, valutazione d’impatto, governo del rischio, chiarezza nel dire sì e nel dire no.
La dimensione internazionale della città impone anche una diplomazia quotidiana. Non solo quella degli incontri ufficiali, ma la diplomazia minuta del convivere urbano: permessi e orari, festival religiosi che si intrecciano, spazi condivisi, reti interreligiose che gestiscono momenti di tensione con serenità e regole chiare. È il tipo di capitale sociale che regge le città nei frangenti critici e che rende credibili parole come coesione e pluralismo. In questo, la figura di Mullally ha aiutato Londra a mostrare il volto migliore: una metropoli che non teme la differenza, ma la governa e la trasforma in risorsa.
C’è poi la dimensione formativa. La diocesi investe su scuole, cappellanie universitarie, programmi giovanili, accompagnando generazioni che crescono in un ecosistema digitale complesso. Le comunità di fede diventano luoghi dove si impara a stare al mondo: alfabetizzazione digitale critica, educazione affettiva, volontariato concreto, competenze soft. È la scommessa di una Chiesa che non rinuncia all’annuncio, ma lo incarna in competenze utili alla vita di tutti i giorni.
Dal reparto al trono di St Paul’s: il filo rosso che tiene
Se si cerca un filo rosso nella storia di Sarah Mullally, lo si trova in una parola: cura. Cura del paziente e del professionista sanitario nella prima parte della sua vita, cura delle comunità e delle istituzioni nella seconda. La cura, per lei, non è sentimentalismo, ma disciplina: si traduce in standard, verifiche, responsabilità; non teme i numeri, perché dietro i numeri ci sono persone da proteggere e servizi da migliorare. È il motivo per cui la sua leadership “funziona” in una diocesi difficile e affascinante come Londra: perché mette insieme umanità e metodo.
Il lettore che è arrivato fin qui ha già gli elementi essenziali: chi è Mullally, che cosa fa a Londra, quando e come ci è arrivata, dove si gioca oggi il suo ministero e perché la sua figura conta ben oltre i confini anglicani. Resta la lezione più ampia: in tempi di sfiducia nelle istituzioni, figure che uniscono competenza e ascolto creano spazio civico. Che venga da un ospedale o da una cattedrale, la cura ben fatta è la forma più credibile di testimonianza pubblica.
Ecco allora che l’espressione giornalistica “la “papessa” degli anglicani” smette di essere una semplificazione e diventa una chiave di lettura: non perché l’anglicanesimo abbia un pontefice – non ce l’ha – ma perché, nel suo ruolo, Mullally incarna una autorità riconosciuta, ascoltata dalla città e rispettata dalle istituzioni. Il suo percorso dice che la competenza non è alternativa alla fede, ma uno dei modi in cui la fede si fa servizio utile, affidabile, capace di reggere la prova dei fatti.
In una stagione in cui le Chiese europee cercano strade di rinnovamento, Londra offre un esperimento: una vescova che parla poco e lavora molto, che non cede alla retorica e non rinuncia al rigore, che non teme la complessità ma la abita con procedure, persone e preghiera. È un modello che non si copia per decreto, ma che ispira: investire su formazione, tutela, trasparenza, collaborazioni con chiunque voglia il bene comune. Se questo è il futuro di una Chiesa vicina alla città, Sarah Mullally ne è, oggi, una delle interpreti più convincenti.
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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: Avvenire, ANSA, La Stampa, Sky TG24, TG LA7.

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