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Che è successo al geologo Riccardo Pozzobon? Tutta la verità

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foto di un ricercatore in alaska

Il geologo Riccardo Pozzobon è morto sul ghiacciaio Mendenhall in Alaska, lasciando un’eredità scientifica che segnerà la ricerca futura.

Riccardo Pozzobon, geologo planetario dell’Università di Padova, è morto in Alaska durante una missione scientifica sul ghiacciaio Mendenhall, nei pressi di Juneau. Le ricostruzioni convergono su un incidente avvenuto mentre stava riempiendo la borraccia vicino a un corso d’acqua di fusione: la corrente lo avrebbe trascinato verso un moulin, un pozzo naturale nel ghiaccio che sprofonda in profondità. Le ricerche dei soccorritori sono state immediate ma non hanno consentito il recupero del corpo. La comunità accademica italiana e internazionale ha ufficializzato la sua scomparsa, trasformando una missione di studio in un lutto che tocca il mondo della geologia planetaria e dell’esplorazione spaziale.

Il viaggio in Alaska rientrava in attività sul campo finalizzate a studiare ambienti estremi terrestri come analoghi di contesti extraterrestri. È il tipo di lavoro che Pozzobon svolgeva da anni, intrecciando ricerca accademica, formazione sul terreno e supporto all’addestramento degli astronauti europei. La dinamica dell’incidente è compatibile con le condizioni tipiche di fine estate sui grandi ghiacciai nordamericani: acque superficiali rapide, sponde instabili, imbuti verticali che inghiottono come ciminiere di ghiaccio. In quel quadro, basta un passo sbagliato, una zolla che cede, un appoggio tradito, e il rischio diventa irreversibile in una manciata di secondi.

I fatti essenziali: cosa è successo e quando

Il Mendenhall Glacier è un laboratorio naturale osservato da decenni per monitorare dinamiche di fusione, morfologie effimere e canali interni. Pozzobon era impegnato in una missione scientifica con obiettivi di rilevamento e verifica sul campo. Secondo quanto ricostruito, si è avvicinato a un torrente di fusione per rifornirsi d’acqua: una prassi frequente in certe spedizioni, quando le condizioni lo consentono e l’area è ritenuta sicura. In pochi istanti, però, l’acqua può cambiare portata e direzione, accelerando verso fessure e pozzi che si aprono nel ghiaccio. È verosimile che sia stato trascinato all’interno di un moulin e che le correnti sotterranee lo abbiano spinto in profondità tra cavità e condotti. Le ricerche hanno coinvolto squadre specializzate e si sono concentrate nelle ore successive, ma le condizioni proibitive hanno impedito ogni recupero.

In Italia, la notizia è stata accolta con sgomento. L’Ateneo patavino ha ricordato l’impegno scientifico di Pozzobon e la sua capacità di unire rigore e curiosità, diventando un punto di riferimento per giovani ricercatori e per i programmi europei di esplorazione planetaria. La data della scomparsa è stata associata alle prime ore di settembre, quando in Alaska il ghiacciaio attraversa una fase stagionale in cui i flussi d’acqua superficiali possono risultare particolarmente impetuosi e instabili. È il contesto in cui la linea tra routine e imprevisto si assottiglia fino a sparire.

Un profilo scientifico riconosciuto

Riccardo Pozzobon apparteneva a quella generazione di geologi planetari capace di abitare due dimensioni: la scrivania e il campo. Da una parte l’analisi di immagini orbitali, modelli digitali del terreno, banche dati di spettri e morfologie; dall’altra, la verifica in situ su deserti, vulcani, ghiacciai, grotte. Il suo curriculum univa pubblicazioni internazionali, attività didattica e collaborazioni con gruppi di ricerca italiani ed europei. Era particolarmente interessato ai processi idrologici e vulcanici che modellano le superfici planetarie: canali effimeri, condotti sotterranei, tubi di lava e, soprattutto, interazioni tra ghiaccio e acqua come chiave per interpretare morfologie osservate su Marte e sulle lune ghiacciate.

Chi lo ha incrociato in convegni, scuole invernali di mappatura geologica o campagne di addestramento racconta la sua serietà concreta, unita alla capacità di spiegare. Non era un personaggio da ribalta mediatica, ma un tecnico di alto livello, di quelli che fanno procedere la scienza con un passo alla volta, documentando, controllando, verificando. Sapeva muoversi tra strumentazione, GIS, modelli numerici e note di campo con una naturalezza che nasce dall’esperienza. È questa duplice natura—laboratorio e terreno—che l’ha reso prezioso anche per la formazione degli astronauti, dove contano attenzione al dettaglio, sensibilità al rischio, comprensione dei processi naturali in ambienti che non perdonano l’errore.

Perché l’Alaska: la missione sul Mendenhall

L’Alaska non era una scelta esotica, ma una decisione scientifica. I ghiacciai come il Mendenhall offrono processi fisici che cambiano nel giro di poche ore: reticoli di ruscelli, soglie che cedono, pozzi di fusione che si aprono e si richiudono, caverne che si formano nelle pance del ghiaccio. Studiare questi ambienti significa catturare dinamiche difficili da riprodurre in laboratorio: la velocità con cui l’acqua incide, il modo in cui il ghiaccio si deforma, la topologia dei condotti che convogliano la portata in profondità. Per la geologia planetaria, questi dati sono oro, perché aiutano a leggere tracce simili su altri corpi celesti, dove tutto ciò che abbiamo è—quando va bene—una mappa altimetrica e qualche immagine ad alta risoluzione.

Pozzobon lavorava in questo confine tra Terra e spazio. Quando cammini sul bordo di un torrente di fusione senti il ghiaccio vibrare, percepisci il respiro dell’acqua sotto i ramponi, misuri la granulometria del detrito inglobato, osservi le linee di rifusione lungo i canali: informazioni che nessun sensore satellitare, da solo, potrà restituire. Quei dettagli—la lucentezza delle pareti, il suono che cambia dove il ghiaccio è più cavo, la temperatura dell’aria a ridosso di un pozzo—completano il quadro e insegnano a leggere i segnali indiretti nelle immagini di Marte o della Luna. Il Mendenhall, con le sue vie d’acqua e le sue fratture, è un manuale a cielo aperto.

Crepacci, moulins e torrenti di fusione

Chi non frequenta i ghiacciai immagina il pericolo come una lastra scivolosa e poco altro. In realtà il rischio ha geometrie complesse. Un crepaccio è una frattura che può aprirsi in qualunque zona di stress del ghiacciaio: può essere visibile come una fenditura netta o mascherato da neve e ponti sottili. Un moulin è invece un pozzo verticale scavato dall’acqua di superficie che cola verso livelli inferiori e crea gallerie e condotti. I torrenti di fusione sono freddi, ma si muovono con velocità sorprendenti, e spesso si incanalano verso una bocca che scompare nell’oscurità. In un attimo, un appoggio certo diventa fradicio e friabile, il bordo cede e la corrente ti pizzica l’imbrago, trascinando a valle. Anche con corde e ancoraggi, la reattività conta secondi, e se il corpo viene inghiottito nel condotto principale recuperarlo diventa proibitivo.

È un rischio conosciuto e ridotto da protocolli severi: valutazioni preventive, perimetrazione delle aree sicure, soste in luoghi riparati, uso di ridondanze nell’equipaggiamento, briefing continui. Ma la natura si muove più in fretta dei bollettini. L’idrologia glaciale è una macchina di eventi improvvisi: una soglia cede, una placca si assottiglia, un fronte si sposta. Chi ha lavorato su questi terreni conosce la sensazione di ascoltare il ghiaccio: si procede con l’attenzione di chi legge una lingua che non ammette distrazioni. Anche così, talvolta, la somma di variabili produce la combinazione avversa.

Le voci dell’accademia e della comunità spaziale

La scomparsa di Pozzobon ha unito colleghi, allievi e partner di progetto in un cordoglio che non suona di circostanza. Nei racconti emergono laboratori serali con studenti curiosi di capire come si passa da una texture in immagine a un processo geologico credibile; emergono escursioni in cui sapeva tenere insieme sicurezza e didattica, spiegando perché in un certo punto si pianta un chiodo e in un altro si arretra di venti metri. Chi lo ha avuto come riferimento parla di metodo, attenzione ai dettagli, pazienza: tre parole che descrivono bene il mestiere del geologo, soprattutto quando è proiettato oltre l’atmosfera.

Nel settore spaziale, Pozzobon era apprezzato per la traduzione pratica della scienza: che cosa significa, operativamente, riconoscere un tubo di lava adatto a ospitare una stazione di prova? Come si mappa un’area simile a quelle che potremmo incontrare su Marte in modo che un equipaggio addestrato capisca al volo dove sono i rischi e dove, invece, le opportunità? Queste domande non vivono di retorica, ma di checklist, procedure, esercitazioni. E qui la sua esperienza di campo, unita alla lettura dei dati remoti, faceva la differenza. Umanamente, dicono, era una presenza silenziosa ma solida, uno di quelli che sorridono con gli occhi, felici quando un giovane collega trova la strada giusta per una mappa o per un’analisi.

Sicurezza e metodo: ciò che impariamo sul campo

Ogni tragedia rimette al centro la domanda su quanto possiamo prevenire. La risposta onesta è: molto, ma non tutto. Nelle spedizioni glaciali, la gestione del rischio è una trama fitta di scelte: finestre orarie calibrate sulla temperatura e sulla portata dell’acqua; zone cuscinetto attorno ai corsi di fusione in cui sostare è vietato; anelli di ancoraggio ridondanti per i movimenti sul bordo; procedure di comunicazione chiare per segnalare cambi di assetto o dubbi. Ogni team esperto coltiva abitudini che, sommate, riducono l’esposizione: la stessa camminata, gli stessi gesti lenti, gli stessi controlli ridondanti. Ma in ambienti ad alta variabilità come i ghiacciai, l’imprevisto non può essere azzerato.

Da questa perdita può nascere un lavoro collettivo su standard ancora più stringenti. La tecnologia offre strumenti interessanti: droni che sorvolano i corsi d’acqua per misurare la velocità superficiale e mappare zone di instabilità; sensori a terra che catturano vibrazioni anomale e segnalano cambi repentini; termocamere per leggere la temperatura dei canali e intuire dove un moulin sta tirando; caschi con sistemi di allerta collegati via radio. Tutto aiuta, ma niente sostituisce l’occhio esperto e quella che i professionisti chiamano situational awareness: saper “vedere” prima di vedere, leggere il contesto, accettare il no-go quando serve.

C’è poi un tema culturale. La scienza sul campo non è un duello con la natura: è una relazione in cui vince chi ascolta. Pozzobon, dicono i colleghi, era in ascolto: del terreno, del gruppo, del buon senso. Questa attitudine sopravvive ogni protocollo e lascia un’eredità pratica per chi verrà dopo: nominare i rischi, spiegarli senza allarmismo, rispettarli. È così che si educano giovani geologi, glaciologi, speleologi al mestiere. È così che si costruisce fiducia dentro un team, la vera assicurazione quando ogni margine conta.

Un’eredità che guarda avanti

Perché questa storia non appartiene solo alle cronache? Perché spiega come funziona la geologia planetaria contemporanea: un continuo andare e venire tra la Terra e lo spazio. Studiare un moulin sul Mendenhall significa imparare a riconoscere canali e caverne in un’immagine di Marte; misurare la portata di un torrente di fusione significa capire dove l’acqua potrebbe aver scavato o depositato materiali su altri mondi; esplorare tubi di lava terrestri aiuta a immaginare rifugi naturali per futuri equipaggi. In questo ponte tra pianeti, persone come Pozzobon sono pilastri: traducono teoria in pratica, modelli in decisioni, mappe in percorsi.

L’impatto del suo lavoro resterà visibile in cartografie e dataset che continueranno a circolare nei progetti europei, nei corsi universitari, nelle scuole di mappatura che formano la prossima generazione. Resterà nel modo in cui molti di noi spiegheranno un crepaccio a un neolaureato, nel tono con cui diremo “qui ci si ferma”, nella meticolosità con cui controlleremo un ancoraggio in più anche quando sembra superfluo. Resterà soprattutto nei gesti: nella decisione di rinunciare a una misura quando il ghiaccio parla male, nella prudenza che non toglie coraggio ma lo educa.

L’Alaska tornerà a essere un luogo di studio, come deve essere. Non c’è eroismo nel romanticizzare il pericolo; c’è dignità nel riconoscerlo. Ricercatori e studenti riprenderanno a camminare sulle superfici azzurre del Mendenhall e di altri ghiacciai, con cautela rinnovata e strumenti più intelligenti. La comunità scientifica—italiana ed europea—porterà avanti le linee di lavoro a cui Pozzobon ha contribuito: mappature, analisi idrologiche, simulazioni per missioni lunari e marziane. È il modo più onesto per tenere insieme memoria e responsabilità.

Un addio che ci chiama alla responsabilità

Raccontare cosa è accaduto a Riccardo Pozzobon significa dire la verità semplice: un ricercatore esperto è morto lavorando, in un ambiente che studiamo proprio perché è complesso e imprevedibile. Significa anche riconoscere l’utilità profonda di quel lavoro: la conoscenza che lascia, i metodi che migliora, i giovani che ha insegnato a guardare una carta topografica come un racconto di processi e non come un foglio di linee. In queste righe c’è spazio per il dolore, ma c’è anche un invito a continuare con rigore, con cura, con la misura che fa grandi le spedizioni silenziose.

La verità sta qui: l’incidente in Alaska non cancella il senso della missione scientifica, lo rafforza. Ci ricorda che la scienza non vive solo in laboratorio; esce, si bagna le mani nell’acqua di fusione, ascolta il respiro dei ghiacciai, torna a casa con dati e domande migliori. Pozzobon faceva questo mestiere con una intelligenza calma e una etica del dettaglio che chi lo ha conosciuto non dimenticherà. Tocca a noi—colleghi, studenti, lettori—trasformare il cordoglio in impegno, perché la geologia planetaria continui a illuminare la strada delle prossime esplorazioni, e perché chi mette gli scarponi su terreni difficili possa farlo con ancora più conoscenza e ancora più rispetto.


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Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate:  Corriere della SeraLa RepubblicaIl Sole 24 OreIl GazzettinoLa StampaPadova Oggi.

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