Seguici

Che...?

Che cosa significa davvero il test russo del Poseidon?

Pubblicato

il

test russo del Poseidon

Il presidente Vladimir Putin ha annunciato da Mosca che la Russia ha testato il Poseidon, il siluro–drone sottomarino a propulsione nucleare, definendolo un’arma “senza eguali” e più potente perfino del missile intercontinentale Sarmat. La dichiarazione è arrivata oggi, 29 ottobre 2025, con un dettaglio chiave: il test sarebbe avvenuto “ieri”. Per i lettori italiani il punto non è solo che Mosca rivendica un altro passo avanti, ma che lo fa su un sistema concepito per colpire dal mare, aggirando scudi antimissile e difese tradizionali, proprio dove l’Europa è più esposta: coste, porti, snodi energetici.

Cosa cambia adesso, sul concreto? Se l’annuncio verrà confermato in tutti i suoi elementi, il programma Poseidon passa da dimostrazione di ambizioni a capabilità più credibile. Non parliamo di un missile balistico come gli altri: è un veicolo subacqueo autonomo, senza equipaggio, teoricamente capace di viaggiare a lungo raggio in profondità e di trasportare una testata (convenzionale o nucleare) contro obiettivi costieri o infrastrutture marittime. Il valore strategico non sta soltanto nella potenza della carica, ma nella sorpresa, nell’imprevedibilità della traiettoria e nella difficoltà di intercettazione in ambiente subacqueo. L’Italia, con migliaia di chilometri di coste e porti che sostengono export, import energetico e logistica, deve leggere questo segnale con lucidità: non panico, ma una postura di sorveglianza e resilienza più robusta.

Che cos’è Poseidon, nella sostanza

Poseidon (spesso indicato come 2M39, in passato “Status-6”) è descritto come un veicolo subacqueo autonomo di grandi dimensioni, più lungo e massiccio di un siluro standard, spinto da propulsione nucleare. L’energia del reattore alimenta la propulsione elettrica e i sistemi di bordo, garantendo autonomia e raggio ipoteticamente transoceanici. Il mezzo è pensato per operare a grande profondità, riducendo l’osservabilità, con profili di missione che includono la lenta navigazione di avvicinamento e la fase terminale verso bersagli costieri ad alto valore. Le prestazioni circolate pubblicamente (velocità, quota d’immersione, resa della testata) variano molto a seconda delle stime: numeri eccessivi fanno notizia, ma la realtà operativa dipende da scelte ingegneristiche non divulgate.

L’idea, però, è chiara da anni: aggiungere alla triade nucleare tradizionale (ICBM terrestri, SLBM lanciati da sottomarini, bombardieri) un vettore “asimmetrico” che costringe gli avversari a investire in nuovi sensori e nuove dottrine. Perché è asimmetrico? Perché sposta la minaccia sotto la superficie, in un dominio dove la difesa è intrinsecamente costosa e lenta da costruire, e dove l’allerta precoce è più incerta rispetto allo spazio aereo.

Cosa è plausibilmente avvenuto nel test

Dall’annuncio politico non emergono parametri operativi completi. Non sappiamo, ad esempio, quali sequenze siano state verificate: lancio da sottomarino, navigazione autonoma per una determinata tratta, profili di profondità e velocità, eventuale recupero del mezzo. Non abbiamo telemetrie pubbliche né convalide indipendenti. È normale per un programma strategico di questa sensibilità. Quello che conta, nell’immediato, è che Mosca rivendica la maturazione di una parte essenziale della catena: integrazione piattaforma–veicolo, procedimento di rilascio e capacità di governare il sistema in mare. Sono tasselli fondamentali sulla strada dell’operatività.

Il passo successivo, che inevitabilmente verrà osservato da analisti e marine occidentali, riguarda la ripetibilità dei test e la complessità crescente dei profili. È qui che un programma del genere mostra la differenza tra un prototipo “dimostrativo” e un sistema d’arma schierabile. Navigazione di lunga durata, comunicazioni affidabili a bassissima probabilità di intercettazione, robustezza meccanica su rotte oceaniche, affidabilità del reattore: ognuno di questi elementi richiede prove ripetute, in condizioni reali.

“Più potente del Sarmat”? Un confronto fuorviante

L’affermazione secondo cui il Poseidon sarebbe “più potente” di Sarmat va contestualizzata. Sarmat è un ICBM pesante con più testate e traiettoria balistica; Poseidon è un vettore subacqueo con una logica d’impiego completamente diversa. Confrontare “potenza” in senso aritmetico (megaton contro megaton) dice poco della minaccia strategica effettiva. Un ordigno di “grande resa” non è, di per sé, più destabilizzante di un vettore capace di neutralizzare la rete di allerta e aggirare le architetture difensive esistenti. La domanda utile, per chi pianifica la difesa, non è quanta energia sprigioni la testata, ma quanto preavviso si ha, dove colpisce, come si intercetta — e a che costo.

In altre parole, Sarmat e Poseidon occupano nicchie strategiche diverse. Il primo minaccia il territorio in profondità con una salve di testate multiple; il secondo complica la protezione delle aree costiere e delle infrastrutture critiche (porti commerciali, terminal energetici, arsenali, cantieri). Il valore d’uso di Poseidon, se e quando fosse davvero operativo, sarebbe nell’effetto sorpresa e nella capacità di punire obiettivi che sostengono l’economia e la logistica occidentali.

Chi porta in mare il sistema: Belgorod, Khabarovsk e la “flotta speciale”

Il K-329 Belgorod, sottomarino nucleare di grandi dimensioni, è indicato da anni come una delle piattaforme destinate a imbarcare e rilasciare Poseidon. È un battello particolare, associato a unità che lavorano per la GUGI (la direzione russa specializzata in attività profonde e non convenzionali). A esso si affianca il Khabarovsk (Progetto 09851), spesso descritto come classe “dedicata” al nuovo vettore, con caratteristiche interne pensate proprio per questo compito. La filiera industriale che ruota intorno a questi due nomi è lunga e complessa, e ogni avanzamento — varo, prove in mare, integrazione — viene seguito in dettaglio dalla comunità OSINT internazionale.

Non significa, automaticamente, che l’intero sistema sia pronto al combattimento. Prontezza operativa vuol dire catena di comando, dottrina, addestramento, manutenzione, scorte, capacità di produzione in serie. Un prototipo che funziona non è ancora una linea d’arma in grado di reggere l’uso quotidiano, l’attrito e la necessità di essere sempre disponibile. È una differenza che, nella storia dei programmi strategici, ha richiesto anni per essere colmata.

Cosa può fare davvero: capacità e limiti, senza hype

Il fascino (e il timore) del Poseidon sta nell’endurance. Un veicolo che non ha bisogno di rifornimenti, alimentato dal proprio reattore, può permettersi tempi lunghi, profili “lenti e bassi”, soste in attesa del momento giusto. La navigazione autonoma in ambiente subacqueo, però, è una scienza imperfetta. La propagazione del suono in mare varia con temperatura, salinità e pressione; l’acqua non è uno spazio vuoto dove basti “impostare una rotta”. Servono algoritmi robusti, sensori affidabili, ridondanza. E una firma acustica il più possibile contenuta, perché ogni motore, ogni riduttore, ogni scafo produce rumore. Un rumore che reti di sensori possono catturare.

Altro punto: comunicazioni e controllo. A grandi distanze e profondità, scambiare dati con un veicolo subacqueo significa accettare latenze e limitazioni fortissime. Si può programmare il profilo, si possono usare tecniche a bassissima frequenza o sistemi relay, ma resta un ambiente tosto. Questo obbliga a una dottrina d’impiego che bilancia autonomia della macchina e responsabilità umana, con regole chiare per evitare incidenti e ambiguità in scenari di crisi.

Impatti per l’Europa e per l’Italia: dove siamo esposti

L’Europa è un continente marittimo. I grandi porti sono il polmone dei commerci e la rete energetica si affida sempre di più a terminali costieri, anche galleggianti. L’Italia, in particolare, vive di mare: porti container strategici, hub per prodotti petroliferi, terminale del gas naturale liquefatto, cantieri navali, basi della Marina. Una minaccia che arriva dal sotto-superficie colpisce esattamente questa anatomia. La domanda non è “siamo al sicuro?” — risposta ovvia: la sicurezza assoluta non esiste — ma “come riduciamo il rischio e alziamo il costo di un eventuale attacco?”.

Il primo mattone è la situational awareness marittima. Migliorare la sorveglianza acustica in aree chiave, dotarsi di un quadro integrato che unisca sensori costieri, pattugliatori marittimi, droni di superficie e subacquei, scambio dati tra Marina Militare, Guardia Costiera e partner alleati. Non si tratta di “chiudere” il mare — impossibile — ma di aumentare la probabilità di scoperta e ridurre i tempi di reazione. Il secondo mattone è la resilienza: protezione fisica di siti critici, piani di ridondanza logistico–energetica, esercitazioni regolari con scenari realistici, procedure per ripristinare rapidamente la funzionalità dopo un danno.

C’è anche un capitolo di cooperazione industriale. La sorveglianza subacquea e la guerra antisommergibile richiedono sonar, boe, piattaforme, algoritmi di analisi. L’Italia ha competenze navali e elettroniche importanti: metterle a sistema, in chiave NATO, significa alzare lo standard medio del teatro mediterraneo e adriatico, evitando duplicazioni e buchi. La priorità non è creare un “muro” invalicabile, ma costruire una tessitura di sensori e capacità che renda l’ambiente marino più trasparente per chi difende e più opaco per chi attacca.

Sorveglianza, deterrenza, costi: l’equilibrio da trovare

Ogni euro speso in sorveglianza e resilienza ha un ritorno doppio: aumenta la sicurezza e dissuade l’avversario, perché gli rende la vita più difficile e cara. L’errore da evitare è inseguire soluzioni onnicomprensive che promettono protezione assoluta. La scelta intelligente è prioritizzare: difendere meglio i nodi critici, mappare le aree di transito sensibili, esercitare la catena decisionale civile e militare. Questo è il linguaggio che gli avversari capiscono: un contesto in cui la sorpresa diventa meno probabile e l’effetto di un singolo colpo viene assorbito più in fretta.

Il contesto dei trattati: meno regole, più ambiguità

La governance degli armamenti non è più quella di un tempo. Negli ultimi anni si sono allentate le ispezioni, si sono rarefatti gli scambi di dati, e alcune cornici giuridiche sono state sospese o ridimensionate. In un paesaggio così, ogni annuncio come quello sul Poseidon ha un peso maggiore. Non perché rovesci da solo la dissuasione reciproca, ma perché normalizza l’idea di armi “fuori categoria”, con standard di trasparenza più labili e linee rosse meno codificate. L’assenza di telemetrie pubbliche non è un dettaglio accademico: aumenta il rischio di percezioni errate, di calcoli sbagliati, di spirali di escalation involontarie.

Per l’Europa e per l’Italia questo si traduce in una necessità concreta: canali diplomatici affidabili per la gestione del rischio, anche minima, e un lavoro paziente di confidence building nei teatri dove le unità militari operano a stretto contatto. Il mare è una superficie di attrito: più regole comuni, meno sorprese.

Ambiente e sicurezza: i rischi “collaterali” da non sottovalutare

Un sistema a propulsione nucleare in mare pone interrogativi anche ambientali. Non si parla solo dell’uso in combattimento, che appartiene all’ipotesi estrema, ma di incidenti in fase di test o esercitazione, di recuperi difficili, di possibili rilasci in caso di avarie gravi. La storia dei reattori navali, in decenni di uso, racconta una maggioranza di operazioni sicure e alcuni incidenti. La trasparenza è cruciale: rassicurare le opinioni pubbliche e dimostrare standard tecnici adeguati riduce l’ansia e previene letture allarmistiche che, spesso, sono la prima conseguenza di informazioni parziali.

La sicurezza nucleare in ambiente marino richiede procedure rigorose, piani di emergenza binazionali e alleati, monitoraggio continuo. Non serve cedere alla retorica dell’“arma dell’Apocalisse”, ma nemmeno minimizzare. Una democrazia matura tratta questi temi con realismo tecnico e dati, non con slogan.

Stato del programma: tra prototipo e capacità schierata

Dove siamo, realisticamente, sulla strada dell’operatività? Un test annunciato non equivale alla prontezza al combattimento. Per arrivarci servono una campagna di prove con parametri via via più complessi, una catena industriale in grado di produrre i veicoli a qualità costante, un flusso logistico di manutenzione e ricambi, equipaggi e operatori addestrati, dottrina definita. Nella storia, i programmi russi (come quelli occidentali) hanno alternato accelerazioni e ritardi; Poseidon non fa eccezione.

Attenzione anche alla componente economica. Un sistema come questo è costoso da sviluppare, sostenere e proteggere. Le scelte di priorità interne — quante unità produrre, quali missioni assegnare, come integrarlo nella postura globale — non sono automatiche. È probabile che, per un lungo periodo, Poseidon conviva con altri programmi “novel” e con i pilastri tradizionali della deterrenza, ritagliandosi un ruolo mirato, non totalizzante.

La difesa vista dal mare: che cosa serve davvero

Per il lettore italiano, tre leve contano più di tutto. Intelligence: sapere prima, leggere i segnali deboli, mettere in rete informazioni civili e militari. Tecnologia: sensori passivi e attivi calibrati sui nostri mari, algoritmi che macinano dati acustici in tempo reale, piattaforme che restano in mare a lungo. Addestramento: procedure integrate tra Marina, Guardia Costiera, Protezione Civile, autorità portuali, operatori energetici. Le esercitazioni non fanno titoli come un test nucleare, ma determinano se, nel giorno sfortunato, la risposta è ordinata o caotica.

C’è poi la dimensione alleata. Il mare non conosce confini amministrativi; un quadro NATO coerente evita buchi neri tra responsabilità nazionali e riduce i tempi di coordinamento. Chi pensa alla difesa come a una lista di “cose da comprare” sbaglia bersaglio: la forza sta nel sistema, non nel singolo asset.

Deterrenza oggi: perché il mare conta più di prima

La deterrenza funziona quando l’avversario non è certo di colpire né di uscirne indenne. Poseidon — se effettivamente maturerà — sposta una parte di questa equazione in mare, dove la frizione informativa è più alta. Per l’Occidente, la risposta sostenibile non è replicare simmetricamente ogni novità, ma colpire nel segno: rendere trasparente il mare dove serve, irrobustire la resilienza delle infrastrutture, mantenere unità politica e chiarezza di messaggi.

Un’ultima nota metodologica, utile per interpretare i prossimi mesi: l’annuncio è parte integrante della strategia. A volte arriva prima della capacità piena, proprio per modellare la reazione di chi ascolta, far salire i costi, indirizzare le discussioni sui bilanci. Non è una critica: è la fisiologia della competizione tra potenze. A maggior ragione, serve freddezza.

Cosa resta da verificare, con onestà

Restano domande aperte, tutte molto concrete. Qual è il profilo di navigazione già dimostrato? Che affidabilità ha la catena propulsiva in mare mosso per settimane o mesi? Quali canali di comunicazione sono realmente fruibili in profondità senza compromettere la discrezione? I sottomarini vettori possono operare con la necessaria copertura e sicurezza in aree contese? E ancora: che tempo di preavviso si può realisticamente ottenere con le reti attuali nel Mediterraneo allargato? Sono interrogativi tecnici, ma hanno ricadute politiche e di bilancio precise.

Nel frattempo, l’interesse del pubblico non va sprecato. Informare significa distinguere tra ciò che sappiamo (annuncio, piattaforme note, obiettivi dichiarati) e ciò che è verosimile (fasi di test, percorsi industriali) senza sconfinare nella fantascienza. È così che un tema di sicurezza entra nel dibattito democratico senza deformarsi.

Titolo di coda: l’Italia vista dall’acqua

Non è la fine di un’epoca, ma un campanello severo. Il test del Poseidon — preso per ciò che è, un annuncio politico con probabile sostanza tecnica — ci ricorda due verità. Primo: la competizione strategica si gioca sempre più nelle acque che bagniamo, nel raggio di poche miglia dai nostri porti, dove passano energia, merci, lavoro. Secondo: la difesa intelligente è fatta di sistemi e procedure, non di slogan. L’Italia ha le competenze, industriali e operative, per alzare lo sguardo e fare la sua parte nel mosaico alleato: sensori giusti, addestramento giusto, coordinamento giusto.

Mosca ha scelto di mostrare il proprio pezzo forte nel mare profondo. A noi, più che reagire a caldo, conviene mettere in ordine la casa: vigilanza sulle rotte, priorità ai nodi sensibili, esercizi che testano la catena civile–militare e una conversazione seria con l’Europa su risorse condivise. Perché il mare, quando serve, difende chi lo conosce meglio. E la sicurezza, qui, non è un’astrazione: è la condizione pratica per continuare a vivere di mare senza temere il prossimo annuncio.


🔎​ Contenuto Verificato ✔️

Questo articolo è stato redatto basandosi su informazioni provenienti da fonti ufficiali e affidabili, garantendone l’accuratezza e l’attualità. Fonti consultate: ANSACorriere della SeraLa RepubblicaRaiNewsLa Stampa.

Content Manager con oltre 20 anni di esperienza, impegnato nella creazione di contenuti di qualità e ad alto valore informativo. Il suo lavoro si basa sul rigore, la veridicità e l’uso di fonti sempre affidabili e verificate.

Trending